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ARMANDO GRECO RACCONTA PINO GUARRACI: GIORNALISTI POVERI MA CON MOLTA DIGNITA’

Pubblichiamo un articolo di Armando Greco su Pino Guarraci. Due figure di artisti che hanno fatto molto per Siracusa. 

Giuseppe Guarraci è nato il 4 giugno 1940 a Porto Empedocle, provincia di Agrigento, la terra che diede i natali al grande Pirandello. Nel 1945 in tutti i pescherecci siracusani furono montati nuovi motori e, dato che in città mancavano motoristi navalmeccanici, il padre di Giuseppe, assieme a tanti esperti macchinisti di Porto Empedocle, si trasferì nella patria di Archimede.

Il piccolo aveva appena cinque  anni e non subì quindi il trauma di chi è costretto a emigrare in cerca di migliori soluzioni di vita. Oltre tutto, quel trasloco non era un cambio di nazione. Non erano andati fra la nebbia del Nord, ma si trovavano sempre nell’amata Sicilia, sotto lo stesso sole, fra i medesimi odori di zagara e di menta, sempre con lo sguardo rivolto all’azzurro mare che lo ammaliava con il suo canto melodioso nelle notti estive e quando brontolava durante le giornate di tempesta.

Giuseppe s’interessò, fin da ragazzo, al teatro e alla poesia, divorando libri su libri, soprattutto quelli di Martoglio, Verga, Pirandello. Calpestò presto le tavole dei palcoscenici delle varie filodrammatiche siracusane, inebriandosi della  polvere di un’arte da cui si è allontanato solo da pochi anni dopo aver capito che il teatro, come tutta la cultura in generale, in questa città è morto definitivamente.

Assieme al teatro, coltivava la poesia, scrivendo in lingua e nell’amato dialetto siciliano, non quello della parlata di Girgenti, un tantino ostico per gli stessi siciliani, ma quello siracusano, molto più chiaro e comprensibile e al quale Giuseppe si è abituato da piccolo. Si considerava, infatti, un siracusano vero e proprio, dato che a Porto Empedocle è vissuto solo pochissimi anni, con qualche ritorno affettivo per i nonni.

Contemporaneamente al teatro e alla poesia, Guarraci iniziò a lavorare, nel 1958, in quella industria che aveva trasformato il paesaggio di Siracusa in un deserto di fumanti e velenose ciminiere. Le cattedrali moderne che hanno saputo illudere migliaia di operai strappati alla campagna e che adesso si pentono di avere sacrificato una vita tra i veleni tossici di un sogno trasformato in incubo.

Tutto questo Giuseppe lo ha trasformato in articoli e poesie, comprendendo che le sue parole erano buttate al vento e che doveva continuare a tirare a denti stretti fino all’età pensionabile, tra stenti e sacrifici, per far campare la famiglia composta dalla moglie e da tre figli sempre in attesa di un lavoro. Non s’è mai piegato ai condizionamenti di quei politici che, quando avrebbero potuta farlo, lo avrebbero accontentato tranquillamente sistemando almeno uno dei due maschi, se non altro per farlo smettere di scrivere da sindacalista su un giornale che a suo tempo dava fastidio a parecchi.

Parlo della prima serie de “L’Eco di Sicilia”, che nei primi anni Settanta denunciava il malessere di una città in preda all’agonia, a quella lenta morte che stiamo attualmente vivendo senza ribellarci. Allora eravamo pochi a farlo, scrivendo con la disperazione della gioventù. E Pino era uno di noi, puntualissimo ogni settimana nella sua rubrica “Il Guarraci…no”, che gli costò l’avanzamento nella carriera e parecchi grattacapi in fabbrica, fra quei dirigenti che non lo potevano soffrire e che adesso lo ignorano pensando di averlo ucciso civilmente. Il loro è solo un tentativo, però, poiché da Pino, pur non ottenendo la ribellione che magari potrebbe costargli il pane, avranno solo il disprezzo.

Il suo sfogo naturale è la poesia. In un ventennio ha scritto e pubblicato molte raccolte; “Pupi e pupari a Siracusa”, esaurito in breve tempo e attualmente unico nel suo genere, con uno sciocco tentativo di imitazione che ha messo solo in ridicolo l’incauto plagiatore, e “Cronache del teatro siracusano” che riporta fedelmente e obiettivamente la storia del teatro aretuseo, evidenziando pregi e difetti delle varie compagnie di teatranti e sottolineando le assurde falsità di alcuni giornalisti del tempo, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta.

Ha avuto anche lui i suoi bravi sogni, il buon Giuseppe, e ha inseguito le sue chimere. Ha cozzato contro il muro della cattiveria umana e ha dovuto piegare tristemente e lentamente la sua fierezza perfino nel fisico: a cinquantaquattro anni ne dimostra di più e i neri e folti capelli di una decina d’anni fa si sono persi assieme a sogni e speranze.

Studiava mentre lavorava, riuscendo a diplomarsi continuando a sperare che un titolo di studio lo avrebbe fatto avanzare di categoria. Altra illusione. Certi errori si pagano, e cari, così come le sta pagando amaramente il sottoscritto, che di quell’ “Eco di Sicilia” era il direttore responsabile. Come l’hanno pagata Enzo Giudice, Dino Cartia, Giorgio Orefice, e tutti gli altri che contribuirono con le loro idee alla formazione di quella palestra di pensieri stupidamente garibaldini.

Siamo stati ripagati con l’amara indifferenza che ci ha poi portati alla soppressione del giornale. Non ci siamo, però, mai piegati. Poveri sì, ma con una dignità che serve da lezione ai nostri figli. Né si è mai piegata la nostra amicizia, nonostante i tentativi di qualcuno che cercava di metterci l’uno contro l’altro. Assieme, io e Pino, abbiamo scritto per diversi anni su vari giornali, dall’ “Araldo dello sport”, a “La Nuova Gazzetta”, da “La Domenica” a “L’Eco di Sicilia” e “Siracusa Press”. Sempre coerenti, sempre più amici e pieni di stima, la stessa stima che adesso ci lega nelle trasmissioni di “Superradio”.

Pino Guarraci è un poeta che bisogna leggere con attenzione, soprattutto quando parla in versi delle nostre tradizioni e delle leggende, quando ritrae certi ragazzi di Ortigia o quando rifà in versi siciliani la storia degli eroi dell’Iliade. A volte il carattere di ragazzo esce fuori con le speranze, mentre spesso l’uomo di oggi, duro e cinico, legato a una realtà ottenebrante e incivile, avanza prepotente per svegliare quello sciocco ragazzo di ieri che non è più degno di continuare a sperare. Ma l’uomo di oggi, il Guarraci degli anni Novanta, non spera più nei miracoli di chi ha cercato di distruggere perfino la sua stessa immagine. Il Guarraci di oggi confida solo in quel Dio a cui da più di dieci anni ha dedicato la sua esistenza, il Dio che gli dà la forza di sopravvivere e che gli ha ispirato il componimento più significativo, quel “Dies Irae”, che rappresenta l’amorevole omaggio di un figlio verso il Padre. Guarraci è tutto qui, in questo mio ritratto scritto di getto sopra un foglio di carta che rappresenta tutta la nostra rabbia repressa. Non c’è niente di arcano da scoprire in lui. E’ l’uomo più semplice e onesto da conoscere e stimare, da capire ed amare. Il suo, in poche parole, è lo stesso mio ritratto morale.

                                                  Armando Greco