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L’EPICENTRO DELL'”ANNACATA”, LE NATICHE PERFETTE DELLA NOSTRA VENERE

Ben oltre la vulgata metropolitana, e con la salvaguardia di un tratto sorridente ancorché in punta di penna, l’argomento può essere trattato a man salva: quel fascinoso epicentro della “annacàta” muliebre.

Risalendo nella notte dei tempi, tutto cominciò quando gli umani ebbero l’idea di rizzarsi sulle zampe posteriori, sviluppando i muscoli glutei che da allora conformarono natiche emisferiche. Secondo Yves Coppens, il fatto risale a circa quattro milioni di anni addietro. Nelle femmine, in particolare, la natica si formò in quella chiappa nuda, dolce e liscia.

A quanto affermano gli studiosi, la donna dalle grosse chiappe fa parte delle origini dell’umanità. Ne fanno fede le statuette primitive del paleolitico. Hennig, nel suo “Breve storia delle natiche”, affema che fra tutte le donne “steatopigie” si evidenzia la Venere  di Lespugna scolpita in un blocco d’avorio, vera e propria sfida alle leggi anatomiche, cumulo di masse arrotondate e levigate, una sorta di brioche.

Tale insomma da sedurre i maschi dell’epoca. Una realtà anatomica con una funzione magica legata alla caccia e alla fecondità? O magari sacerdotesse di religioni arcaiche? Oppure Veneri impudiche che valorizzavano l’opulenza delle proprie forme? Apparentemente si può affermare, sottolinea Hennig, che quelle natiche preistoriche erano rigonfie di concupiscenza.

Urgeva peraltro dall’inizio la necessità della prosecuzione della specie, e la femmina andava modellandosi conseguentemente. Non solo: con l’andar del tempo l’accoppiamento diventò frontale, e fu allora che la femmina cominciò a sviluppare anche i seni: diventò una versione molto più equilibrata e agile della donna. Così come permane tutt’ora.

Al Museo di Siracusa irradia femminilità la Venere Anadiomene. Quella stessa davanti alla quale (è  storia) Josephin Baker si fermò a lungo ammirata. E non è stata la sola. Per curiosità, andate a guardare la perfezione delle natiche: sono stati necessari frequenti interventi per cancellare, negli anni, il segno di mani che furtivamente si sono soffermate ad accarezzarle.

La “annacàta”, dunque. Quell’andamento naturale, dettato dalla diversa conformazione delle anche muliebri, con cui ondula l’epicentro fascinoso delle donne che percorrono le nostre strade: autentiche passerelle (in)volontarie che celebrano il magico “uora è di ‘ccà, uora è di ‘ddà” mentre loro, con apparente indolenza, procedono nell’andare.                   

Aldo Formosa