Politica

LO STUPRO DI MARINA DI MELILLI E LA FINE DI TUTTE LE ILLUSIONI

Chi volesse vedere com’era la costa siciliana nella zona di Priolo-Melilli all’inizio degli anni Sessanta, oggi, avrebbe serie difficoltà. Qualche fotografia, uno o due documentari introvabili e i filmati del telegiornale (archivio Rai). Non c’è memoria storica, se non quella di chi ha visto cambiare il territorio e ha vissuto la grande Illusione della Sicilia industriale. Il film di Ermanno Olmi, I Fidanzati (1963), è forse l’unico documento che racconti con la poesia neorealista la brusca trasformazione dell’economia agricola in economia industriale e faccia vedere Priolo, un gruppetto di case attraversate dalla vecchia strada provinciale, con i suoi oleandri polverosi, una chiesa, un cinema. Marina di Melilli, invece, era soltanto una spiaggia. Si chiamava Fondaco Nuovo e gli operai della Rasiom (il primo insediamento ad Augusta è del 1946) prendevano il sole dove adesso c’è una striscia di asfalto che porta alle piattaforme petrolifere.

I contadini, diventati improvvisamente operai, non andavano in fabbrica quando pioveva (erano abituati ai ritmi della campagna), le ragazze, il primo giorno di lavoro, si presentavano accompagnare da tutta la famiglia, cugini compresi, e i carretti tagliavano la strada alle rare auto dei dirigenti venuti dal Milano.

I contadini diventavano operai senza aver avuto la possibilità di metabolizzare il cambiamento di status, con l’unica percezione dello “stipendio fisso” come valore assoluto. Migliorare le condizioni di vita era un sogno meraviglioso. Chi conosce la vita dei mezzadri, in campagna, sa quanto dolore e quanta povertà conteneva.

Prima dell’arrivo dell’industria, l’alternativa era stata l’emigrazione, un esodo di massa verso nazioni che avevano già un forte tessuto industriale. Il progresso era la soluzione, per giunta a portata di mano. Così, all’inizio degli anni Settanta qualcuno decide che questo angolo di Sicilia, cantato dai poeti latini, terra magica, baciata dalla grazia degli dei, ha un solo futuro possibile: un grande polo industriale. Aniline e magnesite. Eternit e raffinerie. Chimica e petrolio.

Dopo la Rasiom di Augusta avanzano altri nomi: Montedison, Anic, Isab, Icam.

L’operazione si chiama tabula rasa: significa che il progresso avanzerà a spese di Marina di Melilli, ex borgata di pescatori, paese semiabusivo e disordinato cresciuto tra la strada provinciale per Siracusa e il mare, dove la gente tiene la barca parcheggiata davanti alla casa. Sembra facile: si indennizzano i proprietari, si butta giù tutto, si spiana, si costruisce. Sembra facile: con l’Isab alle spalle l’aria è già irrespirabile: chi insisterà per restare lì? Nel 1970 una fuga di gas intossica mezzo paese e un centinaio di persone finiscono in ospedale.

Strani incidenti si moltiplicano: malattie ai

polmoni, reazioni allergiche, vomito. La gente comincia ad andar via. Non ci sono espropri, solo cessioni bonarie, discreti indennizzi oppure offerte di appartamenti nei paesi vicini, Priolo, Floridia, Melilli…

Ma quando, il 17 febbraio del 1979, cominciano le demolizioni, l’operazione tabula rasa è ancora indietro, anche se finanziata per dieci miliardi (vecchie lire) dalla Cassa per il Mezzogiorno. A Marina ci sono 182 famiglie, mille abitanti, panificio, macelleria, merceria, alimentari, bar, telefono pubblico, ricevitoria per giocare al totocalcio, tabaccaio, elettricista, trattoria De Simone con specialità zuppa di cozze, scuola elementare, una chiesa: Santa Maria Stella del Mare. E qualcuno rilascia licenze per costruire altre case. A questo punto, nasce la resistenza. La maggior parte vuole soltanto alzare il prezzo, ma Salvatore Gurreri no. Lui vuole il mare, il suo mare. Non vuole le industrie e non gli interessano i soldi. Ha deciso che non se ne andrà. Altri la pensano allo stesso modo, pochi per la verità, ma bastano a inceppare il meccanismo faticoso della burocrazia. Non ci sono soltanto muri da abbattere, ci sono delibere da approvare, varianti di progetto, consigli comunali pieni di gente capricciosa. Montagne di carta bollata e stormi di avvocati.

Un mese dopo le prime ruspe, la gente inferocita occupa gli uffici dell’Area di Sviluppo Industriale di Siracusa, volano tavoli e portacenere, un impiegato scivola e batte la testa, gna, una donna inflessibile, dai capelli bianchi raccolti in un piccolo chignon alla Evita che era stata partigiana e deputato di “Giustizia e Libertà”. Per lei, Salvatore aveva lasciato la moglie e due figli che pure amava.

Subito dopo mi ha presentato il fornaio, Paolo Lombardo, che ha impastato per me un chilo di mafalde con l’acqua presa dagli scarichi delle aniline, mollica rossa e viola, pane della disperazione che avrebbe potuto provare al di là di ogni ragionevole dubbio che cosa c’era davvero nel mare. La famiglia Quattrocchi, proprietaria di una macelleria surreale con i ganci e il bancone vuoto, era sempre aperta. Se chiedevi un chilo di carne trita, uno dei figli partiva in bicicletta per Priolo, la comprava e la portava al padre, che la rivendeva allo stesso prezzo, senza guadagnarci, solo per non chiudere.

Giovanna Finocchiaro, la Signora della casa di Conchiglie, aveva grandi occhi tristi, un marito in dialisi e tre figli. Ho regalato una tavoletta di cioccolato alla , più piccola che, in cambio, mi ha fatto leggere il suo tema. Cominciava così:

“Sono nata in un paese che non c’è più e dove adesso abitiamo solo noi”. I due fratelli giocavano fuori, in una pozza d’acqua piena di rane alimentata da un rubinetto rotto. Santino, dieci anni, conosceva anche la scorciatoia che portava a uno degli scarichi più nascosti, tra le canne di un acquitrino, dove l’acqua trasparente aveva un odore aspro, tra ammoniaca e polvere da sparo, e la spiaggia era coperta da generazioni di conchiglie morte. Poi mi sono toccati i De

Simone, Luigi e Salvatore, padre e figlio, arroccati dentro una casa bunker con il muro bordato da cocci di bottiglia e una muta di cani come guardia del corpo. Mi hanno detto subito di lasciar perdere, per il mio bene del quale molto si

preoccupavano, “perché c’erano in gioco troppi interessi, della politica e della malavita”. Per ultimi, ho incontrato Giuseppe Lamina, Paolo La Pira e Orazio Rocca che ricordo mentre si ostinava a dipingere la facciata di un rosa pastello pronto a impallidire alla prima pioggia.

Quell’anno sono tornata molte volte a Marina dopo aver scavato fra strati preistorici di documenti negli archivi pubblici, nelle collezioni dei giornali, negli studi degli avvocati, dopo aver trovato una quantità di curiosi accidenti, perizie evaporate, rapporti smarriti durante i traslochi, denunce, di cui avevo copia, completamente smaterializzate, gente che negava di essere stata dove era stata e di aver conosciuto chi aveva conosciuto anche se c’erano le fotografie; forse tutte coincidenze, forse no.

Salvatore Gurreri mi guardava con un vago rimprovero negli occhi, non mi accusava apertamente, ma certo si chiedeva perché mai portassi regalini a Lina e ai figli di Giovanna Finocchiaro, perché parlassi con tutta quella gente, senza scrivere mai una riga. Non riuscivo a spiegargli che il mio caporedattore giudicava la storia troppo complicata e, soprattutto, “non vedeva la notizia”. Il 22 maggio 1985, otto giorni prima di trasferirmi a Milano, ho promesso a Salvatore Gurreri che sarei tornata e avrei scritto la sua storia, che avrei convinto qualche giornale importante a pubblicarla, “in un modo o nell’altro”.

Invece non ce l’ho fatta.

Poi, un giorno, sette anni dopo, è arrivata la telefonata: Salvatore Guerreri era stato assassinato. Picchiato, strangolato. C’era stata la solita segnalazione anonima, altrimenti nessuno sarebbe andato a cercarlo, in quella ventosa mattina di giugno, piena di nuvole inseguite dal fumo delle ciminiere. Marina di Melilli era morta già da molto tempo, persino i fantasmi se ne erano andati, non trovando più rovine da abitare. Era rimasto soltanto lui, il vecchio, ostinato Salvatore Curreri, l’ex deputato dell’Uomo Qualunque, l’ex liberale che si vantava di aver dato uno schiaffo a Togliatti. In casa c’erano i segni dell’aggressione: sangue sui

muri, sedie rovesciate, stoviglie rotte. I cassetti però erano in ordine, segno che non si trattava di ladri.

Anche in questo caso, l’inchiesta non ha restituito certezze: i due giovanissimi killer, poi arrestati, erano solo balordi o avevano un mandante? Sono tornata a Marina di Melilli l’anno scorso, dopo l’uscita del libro, e mi sono

persa due volte. Il rudere che conservava il grido dipinto sulla pietra: “Marina di Melilli, risorgerai”, era crollato. Non c’era più niente di quello che ricordavo. Una bella strada asfaltata portava alle piattaforme petrolifere Belleli-Micoperi costruite nel frattempo.

Ogni tanto passava un camion. Ho vagato un po’ sulla spiaggia deserta cercando

un punto di riferimento qualsiasi finché il vento non ha scoperto un pezzo di pavimento a gigli e foglie e ho rivisto ancora una volta il percorso dei Giardini Invisibili, la bottega del panettiere con la barca capovolta davanti al cancello, il viottolo e l’alfa romeo verde. Ho cercato notizie. Ho sentito parecchi mea culpa con desiderio di assoluzione da consiglieri comunali e provinciali, associazione

industriali, assessori regionali.

L’ultimo scandalo è recentissimo: inquinamento da mercurio a Priolo, acqua rossa dai rubinetti, malattie, catastrofe ambientale.

L’incendio alla Erg (2005), che ha fatto gridare “Con il petrolio abbiamo chiuso” all’allora assessore regionale al turismo, Fabio Granata, troppo giovane per aver

vissuto quegli anni, ma abbastanza vecchio per valutarne l’eredità, non è un caso isolato. Basta spulciare qualche archivio o una collezione di giornali per trovare esplosioni, pesci morti per avvelenamento del mare e una collezione di sostanze tossiche bevute, mangiate, respirate: nitrati, fosfati, diossine, arsenico, mercurio, cadmio, cromo, vanadio, benzolo, piombo, toluolo. In questa terra che non ama i ricordi, in fondo è tutto scritto, basta cercare. Nei rapporti all’Assemblea

Regionale Siciliana, votati già nel 1979. Negli studi sul sistema idrico (i primi sono datati 1975). Nelle analisi epidemiologiche sull’incidenza di certi tumori e sulle malformazioni dei bambini che hanno portato alle prime inchieste e alle prime offerte di risarcimento da parte dell’industria alle famiglie. L’indignazione di oggi è, nel migliore dei casi, tardiva.

Certo, abbiamo imparato concetti come “impatto ambientale” e “sviluppo sostenibile”. Abbiamo scoperto che in Sicilia l’impatto ambientale è stato disastroso e lo sviluppo, oltre a non essere sostenibile, non è più sviluppo. E circola con insistenza la parola “bonifica”. Cioè un miliardo e mezzo di euro, o poco meno, che le imprese dovranno tirar fuori entro il 2008, per riparare, almeno in parte, i danni. Non è il primo piano di

risanamento ambientale. Ce ne sono stati altri, falliti. C’è stato un continuo rinvio, un tentativo di non vedere il disastro che è stato per anni sotto gli occhi di tutti.

Ma adesso, probabilmente, non ci sono più margini. Le prime analisi di bonifica sono già in atto. Società specializzate preparano progetti e valutano costi.

Forse qualcuno, una mattina presto, vedrà uomini in tuta spaziale muoversi lungo la spiaggia dell’ex Fondaco Nuovo fino a Priolo, e capirà che non stanno girando un film.

L’aria, l’acqua, la terra sono diventati materiali pericolosi, da maneggiare con cura.

Dopo il petrolio e la chimica, il nuovo business sarà quello di restituire alla gente una piccola parte, non ancora quantificabile, di ciò che è andato perduto. E sarebbe bello, se insieme alla qualità dell’aria o del mare fosse restituita anche la memoria; che a volte fa soffrire, ma spesso aiuta a non commettere gli stessi errori.

IL SIMBOLO DELLE ILLUSIONI

di Roselina Salemi