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ECCO COME SI AMMINISTRAVA LA GIUSTIZIA NELLA SIRACUSA ANTICA: GOGNA E PENE DI MORTE

A differenza della giustizia dei giorni nostri, nell’antica Siracusa, non era conosciuto il pubblico ministero e non esisteva un organo corrispondente all’attuale procura della Repubblica. Tutti i reati venivano perseguitati con pubbliche azioni o con azioni private; omicidi, incendi dolosi, ferimenti di persone, tradimenti, avvelenamenti, corruzione dei pubblici funzionari, ecc. venivano conside¬rati reati pubblici, mentre il furto, il divorzio, lo stupro, la frode, l’usura, le successioni, ecc. rientravano nei reati privati.

Colui che si sentiva leso doveva esporre il fatto al magistrato il quale, ritenendolo legittimo e veritiero, lo riferiva ai tribunali.

S’intentava così un processo nel quale le due parti interessate potevano farsi sentire, sostenute dal «sinègoro», una specie di avvocato. Le due parti interessate prima del processo versavano una somma in deposito, proporzionata al valore della causa, che veniva divisa fra i giudici dopo l’esito del giudizio; tale cauzione aveva lo scopo di evitare che venissero intentate numerose azioni col solo scopo di nuocere al prossimo. In casi molto più gravi, l’accusato poteva evitare di essere arrestato offrendo una sostanziosa cauzione in denaro.

Nelle azioni pubbliche, la cauzione veniva versata soltanto dall’accusatore il quale, ritenendosi leso quale membro della comunità, aveva il diritto e anche il dovere di informare il magistrato presentando una regolare denuncia, tra l’altro incoraggiata dalla «polis».

Il giorno del dibattimento, l’accusatore e l’accusato dopo avere prestato giuramento, il primo sulla veridicità della sua causa e il secondo sulla propria innocenza, peroravano la causa da loro stessi, rispettando nei loro interventi il tempo, — che veniva regolato da un’ampollina piena d’acqua, «clepsydra», che gocciolando lo determinava — alla presenza del magistrato istruttore incaricato di registrare le testimonianze, le prove e tutte le dichiarazioni possibili.

Alla fine del dibattito, i giudici decidevano il verdetto, mettendo delle palline entro un’urna: bianche per assolvere e nere per condannare. Il presidente, fatto il conteggio delle palline, tracciava su di una tavoletta incerata una brevissima linea in caso di assoluzione oppure una linea più lunga in segno di condanna: se le palline bianche erano in eguale numero di quelle nere il verdetto era di assoluzione. Dal momento in cui la tavoletta, con apposti i segni, veniva mostrata al pubblico la sentenza divenita esecutoria; l’appello veniva demandato all’«Aerophago» che aveva la facoltà di rivedere la causa o modificare il verdetto oppure, se il caso lo richiedeva, istruire una seconda causa.

Le principali pene consistevano in afflizioni corporali e morali e nel pagamento di somme pecuniarie. Alcune delle pene comminate nella Siracusa greca erano le seguenti:

— il «petalismo», consistente nell’esilio della durata di dieci anni, che poteva essere pronunziato da un’assemblea pubblica di almeno seimila cittadini i quali sopra una foglia d’ulivo esprimevano il loro voto. Il petalismo era la contrapposizione all’ostracismo attico (cfr. Diodoro, XI, 87-2);

– la detenzione, che nella maggior parte dei casi era temporanea e veniva espiata in catene in una specie di carcere;

l’esilio, consistente nell’allontanamento a vita del delinquente e nella confisca di tutti i suoi beni, che venivano venduti a favore della città;

il reo veniva venduto, quale schiavo, in un pubblico mercato;

il condannato veniva marchiato sulla mano con un ferro rovente, «stigmata»;

la condanna all’infamia. Con questo tipo di condanna il colpevole perdeva il diritto alla cittadinanza siracusana o gli confiscavano tutti i beni o, pena ancor più grave, perdeva la qualità di cittadino siracusano per sé e per tutta la sua discendenza;

— il condannato veniva messo alla berlina nei luoghi della Pentapoli più frequentati. Sulla «stele» veniva esposta alla pubblica lettura una tabella contenente il nome del reo ed il suo delitto. Da quel momento il condannato poteva essere impunemente insultato e motteggiato;

— il colpevole veniva legato ad un palo e costretto all’immobilità con il collo imprigionato in una macchina di ferro o di legno, chiamata «cyphon»;

— il condannato veniva legato alla ruota e battuto. Questa sorta di supplizio, nella Pentapoli, era riservato agli schiavi condannati per furto;

— il colpevole veniva imprigionato nel terribile strumento a cinque fori, con piedi, mani e collo. I cinque fori corrispondevano alle cinque maniglie, una per il collo e quattro per le estremità. A proposito di tale supplizio, L. Gernet, in «Rivista di studi greci» fa osservare che «…aveva qualche analogia con la crocifissione, nella quale però la perdita di sangue dovuta al fatto che mani e piedi erano inchiodati, abbreviava l’esecuzione. «Uno degli elementi essenziali del supplizio era la gogna che comprimeva la mascella inferiore che, per il peso del corpo, aggiungeva strazio alla sofferenza. Si può immaginare quale fosse l’agonia del supplizio, prolungata per giorni e giorni…»;  e, infine, la pena capitale, «thanatos», la morte, che poteva essere procurata in diversi modi: per taglio della testa, con la spada, per strangolamento, con colpi di mazza ferrata, con la lapidazione, col rogo, con la precipitazione nel mare, con la precipitazione in una voragine o dall’alto di una rupe, con la crocifissione, per veleno — la cicuta era il veleno più usato.

Antonio Randazzo