MURIU TURUZZU PILASTRU E I SIRACUSANI CHIAMARONO “FACCI DISPIRATA” QUEL MERAVIGLIOSO ANGOLO D’ORTIGIA
Fino a circa mezzo secolo addietro Ortigia era un’isola, collegata alla terraferma mediante il ponte Umbertino.
Direte voi:
– Ma adesso non è la stessa cosa?
– No, carissimi! Si chiama isola un tratto di terra interamente circondato dal mare.
– E Ortigia non è interamente circondata dal mare? Noi Ortigiani, anzi, per la sua modesta estensione, non la chiamiamo abitualmente “ ’U Scogghiu”?
– No, benedetti! Perché quello che circonda Ortigia non è mare: è una pattumiera e Ortigia è una perla gettata appunto in una pattumiera. Mare significa, infatti, acqua pulita, dove ci si possa fare il bagno, e siccome quelle acque non sono balenabili- lo dicono chiaramente i cartelli- ecco che Ortigia non è un’isola o, se volete, è un’isola senza mare!
Adesso, come premio di consolazione, ci hanno regalato il solarium, in vari punti: non sono solai, come la parola potrebbe suggerire a un siracusano che non conosce il latino, ma posti dove si può prendere il sole. Ma sarebbe, come bene dice il proverbio, andare a tavola e non mangiare, andare a letto e non…dormire!
Fino a circa mezzo secolo addietro c’era, invece, il Nettuno. Era il balneatoio, lo stabilimento balneare nel cuore dello “scoglio”, alla fine della Via Maestranza, tirando dritto da Piazza Archimede, affacciandovi dall’ampio spiazzo detto “ Belvedere San Giacomo”, ma che tutti i Siracusani di una certa età conoscono esclusivamente per “ Facci dispirata”.
E vi dirò perché; ma prima vi ricordo che il Nettuno era l’angolo più suggestivo e frequentato, di estate più frequentato della stessa piazza Archimede. Infatti bastava uscire di casa, dall’ufficio gli impiegati, dalla scuola gli studenti, che subito si arrivava a “ Facci dispirata”, si scendeva la scaletta di legno e vi veniva incontro quella specie di simpatica botte ambulante che era don Severino, che vi invitava ad affittarvi una cabina e, se proprio ne avevate bisogno, persino il costume, per potervi fare il bagno. Quasi nessuno sapeva il cognome di Don Severino e tutti lo conoscevano per “ Don Severinu culu ’i truscia”, appunto perché le sue protuberanze posteriori lo facevano apparire come appartenente alla famosa razza africana degli steatopigiti.
Cordialità e disponibilità come le sue in poche persone se ne riscontravano, soprattutto verso i giovani, che conosceva uno per uno e di ciascuno sapeva vita, morte e passione. Sapeva il motivo per cui parecchi venivano e rimanevano a frotte tappati dentro questa o quella cabina, con la scusa di togliersi o di mettersi il costume, appena vedevano che una ragazza entrava in quella adiacente, assieme a un’amica o alla madre. Sapeva perché le pareti divisorie erano diventate delle gruviere, ma lui si faceva i fatti suoi, sapendo che se “ pizzichi e vasi nun fanu pirtusi”, non era poi un delitto riuscire più che a vedere, intuire, guardando con occhi avidi attraverso il buco praticato con un chiodo in una delle tavole, una pur minima porzione di zona intima di chi si toglieva la gonna per indossare o togliersi il costume, allora in rigoroso pezzo unico.
Certo, allora, la televisione non l’avevano ancora inventata, che mette in grande evidenza anche quello che non c’è del fascino femminile… e riuscire a eccitarsi anche con la sola immaginazione, per un giovane era già tanto. Don Severino, quando vedeva che le cose andavano troppo per le lunghe, si limitava a battere le mani e a dire, rivolto alla cabina dove due o più ragazzi stavano rinserrati: – Maniamuni, picciotti! O’ rinfriscativi!
Ora, proprio in quell’eden acquatico, tanto tempo prima, era accaduta una tragedia, una doppia, tremenda tragedia.
Nelle vicinanze di quella piazza c’è il popolare quartiere della Graziella, detta così perché vi si venerava soprattutto la “Madonna delle grazie”, che era la protettrice dei marinai: era infatti una grande grazia quando uno poteva da lì partire, recarsi a pescare e potere ritornare incolume con la propria barca. E tutti marinai e pescatori erano quelli che ci abitavano con le loro famiglie, perché generalmente era il porto piccolo che ospitava le barche da pesca, perché più vicino al mare aperto. I più anziani, che non salivano più in barca, ma ci mandavano i propri figli, rimanevano a terra, stendevano le reti, ad asciugare o a rattopparle, sulla lunga e ampia banchina parallela a via Gelone, che la gente del passato chiama ancora Mascia Rua, cioè Strada maestra, dove oggi hanno realizzato quel ludibrio del Talìu.
Tanuzzu Pilastru ( i cognomi non si conoscevano quasi per nulla, perché al loro posto si usavano i soprannomi, ’i ’ngiurii, che si mettevano a seconda delle particolarità fisiche o caratteriali) era un giovane pescatore che si era guadagnato il soprannome perché appunto fisicamente era una colonna monoblocco, robusto come un Tartan ma tenace e instancabile forse ancora di più. Non conosceva riposo, andava a pescare categoricamente tutti i giorni, sia che fosse una giornata d’agosto che a terra spaccava i timpuna e in mare poco ci voleva che facesse ribollire l’acqua, sia che fosse la più fredda giornata d’inverno, che faceva tremare come le foglie. E il motivo di non perdere neanche un giorno di lavoro c’era: si era sposato da tre anni con la figlia di Compari Cirinu ‘u Tacciaru, Mariuzza, una povera ragazza orfana di madre fin dalla più tenera età, ma “ beddha comu lu suli”, di una dolcezza che nulla ci faceva il miele di zagara, di una bontà con tutti che pareva una Madonna, delicata e fina come un fuscello, di salute piuttosto precaria e bisognosa sempre di cure e di medicine: per questo, forse, non aveva avuto ancora la forza di fare un figlio.
Finalmente Mariuzza era uscita incinta e figuratevi l’esultanza di Tanuzzu quando la mogliettina gli rivelò che sospettava di aspettare una creatura. Sospettare?! Tanuzzu voleva la certezza! Prima ricorse a commari Filumena, che era una vecchietta arzilla molto esperiente di queste cose; non pago, ricorse alla mammana, poi addirittura ad un autentico ostetrico con tanto di specializzazione e di fama. I soldi non bastavano mai, non solo per Mariuzza, ma anche e soprattutto per la casa che si stava affrettando a costruire da un vecchio basso che aveva comperato alcuni anni prima: adesso voleva ristrutturarla prima che nascesse il suo bambino, a cui aveva già messo il nome, quello del padre, Vastianeddhu, che lo aveva lasciato bambino per un male incurabile, misterioso a quei tempi, unico figlio pure lui, che aveva dovuto lasciare la scuola per andare subito a lavorare e portare pane alla madre, che poveretta, era deceduta, forse per il dolore, dopo qualche anno.
Quella volta c’era stato “rosso di sera” e anche allora si diceva che “ buon tempo si spera”. Macchè! Già al tramonto le nuvole avevano cominciato ad avanzare dagli Iblei, da occidente, sempre più dense, verso levante, verso il mare dove soleva recarsi Tanuzzu con la sua barca che prima era stata del padre e prima ancora del nonno, per calare le reti dove sapeva lui e dove gli altri non arrivavano, perché nessuno remava con la forza che aveva lui.
Il vento di dicembre, dopo la festa di Santa Lucia, gonfiava sempre più le onde che sembravano lingue di draghi che volessero ingoiare i piccoli navigli dei poveri pescatori, parecchi dei quali avevano rinunziato ad andare a pescare. Chi non ci aveva voluto rinunciare era andato a calare i “ rizzi” senza allontanarsi molto dalla costa. Tanuzzu no! Tanuzzu aveva bisogno di pesce, aveva bisogno di denaro più degli altri: perciò non c’era mare che potesse farlo dissuadere dall’andare ai soliti posti che sapeva lui e dove gli altri non andavano.
Dopo un paio d’ore si scatenò un furioso acquazzone: i pescatori non temono l’acqua, bensì il vento. E quello si sollevò ancora più furioso e minaccioso.
Gli altri pescatori fecero appena in tempo a tornare, qualcuno lasciando in acqua le proprie reti, con la speranza di andarle a recuperare l’indomani quando il tempo si fosse rimesso. Mariuzza non si sa quante Ave Marie disse quella notte, raccomandandole il proprio ragazzo, che gli facesse la grazia di tornare sano e salvo, con pesce e magari senza pesce. Le ore passavano e il maltempo non accennava a imbonirsi. Mariuzza decise di andare a fargli l’incontro, come qualche volta aveva fatto, quando la salute e il tempo glielo avevano permesso. Che gioia, allora, riabbracciarlo, felice di rivederlo e di sentirgli dire che la pesca era stata abbondante! Al primo pescatore che vide rientrare domandò ansiosa:
– Âtu vistu a Tanuzzu?
“ Nuttata d’infernu è chista, figghia mia!”
Sempre correndo affannosamente verso il punto dove sapeva che si poteva intravedere lontano, piccolo come una lucciola, il barlume che gli indicava dove pescava il suo Tanuzzu, incontrò poi un altro, proprio nello spiazzo:
-Âtu visto a Tanuzzu?
“ Tanuzzu?! Poviru figghiu! Visti ant’ura ca ‘u lumi si stutau! Vatinni a’ casa, figghiuzza, vatinni!” E gli vide farsi il segno della croce. Un urlo terribile, come di animale colpito a morte, si dice che avesse gettato Mariuzza, mentre quello si allontanava scuotendo il capo di commiserazione. Scavalcò il parapetto del belvedere e si gettò giù a capofitto!
L’indomani il mare era calmo, impassibile, come se niente fosse stato, come se niente avesse provocato…
La risacca aveva trascinato, proprio a due passi dallo scoglio, dove si era sfracellata la disperata Mariuzza e dove don Severino molti anni dopo soleva approntare lo stabilimento balneare, il corpo inanime di Tanuzzu.
Da allora i Siracusani preferirono chiamare quel meraviglioso belvedere: “ Facci dispirata”.