Politica

LO SPIRITO DELL’IMPICCATA E LA BELLA STORIA DI PAOLETTA

Molte sono le vie del quartiere storico aretuseo, Ortigia, che prendono il nome dai “Personaggi insigni siracusani dell’Ottocento”, come su Libertà ho pubblicato diversi anni addietro. Altre l’hanno preso da personaggi vissuti in tempi ben più lontani, come Via Dione o via Gelone: questa poi, da quando la toponomastica ha trasferito il famoso tiranno siracusa nella zona più chic della città nuova, corso Gelone, è stata chiamata Via Vittorio Veneto, mentre quella che prima si chiamava via del Littorio è diventata Corso Metteotti. Ci sono, poi, vie, sempre nello “scoglio” intitolate a personaggi che la gente comune non conosce: andategli a dire, ad esempio, chi era Rocco Pirro o Paolo Sarpi!

Ci sono vie che ricordano ancora gli antichi mestieri medioevali: via del Tintori, via dei Candelai. A proposito di questa via, si racconta un fatto che è accaduto a una coppia di sposi che ora sono sui settant’anni quando però allora erano appena sposini e aveva una sola bimbetta che ora è nonnina. Si tratta de “Lo spirito murato”. Questo ve lo racconto un’altra volta. Questa volta vi racconto quello che ha dato il nome al quartiere, sempre nel cuore di Ortigia, chiamato “’A spirduta”.

Al sentirlo nominare così sembrerebbe trattarsi di una persona che si fosse sperduta, dispersa, voce del verbo “spèrdiri”. Invece no, spirduta questa volta in siciliano significa “spiritata”, cioè diventata “spirdu”, fantasma! Il quartiere è dove vi è il palazzo Montalto, quell’edificio dalle finestre trifore e bifore che in parte sporge su piazza Archimede. Infatti da Piazza Archimede si va all’ingresso tramite un corridoio corto e stretto che oggi, transennato com’è, è diventato quasi intransitabile.

Monumento tra i più importanti di Siracusa, che il proprietario di allora, il compianto barone Pupillo avrebbe voluto ristrutturare a sue spese negli anni Sessanta/Settanta, ma che cade ancora oggi a pezzi e addirittura, guardando le famose finestre riesce a farci vedere anche il cielo, tanti sono i pertugi che il tetto mostra!

Osservando poi le finestre che danno su piazza Archimede, se …abbassiamo il tiro , notiamo ancora la grande insegna “ “Generi alimentari Sebastiano Tabacco”; eppure sono circa cinquant’anni che Sebastiano Tabacco è morto, è morto anche il figlio, gettandosi da un quarto piano di Viale Scala Greca, l’ing. Paolo Tabacco. Ma quel negozio rimane da allora chiuso!

Ma dal palazzo Montalto nessuno mai si è buttato. Il cadavere che nel cortile la leggenda dice che una mattina molto remota dal nostro tempo, vi fu trovato, fu trovato impiccato. Suicidio o omicidio, o meglio donnicidio, visto che si trattava del cadavere di una donna?

Nessuno mai lo seppe. Fu lo stesso suo uomo che la stessa mattina volle andare alla caserma dei carabinieri:

– Viniti! – disse – Viniti! Me’ mugghieri è appinnuta a ’na corda!

– E fatela scendere, buon uomo! Diamine, così grande e robusto come siete, non riuscite a farla scendere, che chiamate noi?

– Penni da ’na finestra, a pinnuluni!

– E allora chiamate i pompieri!

– Ma è morta! Pari ’na jaddhina appinnuta ô croccu!

– Ah, morta è? E chi è stato?

– E cu’ ’u sapi cu’ fu? Nuddhu! Ju nun c’era! Accussì l’haju truvatu arricugghiènnumi

di piscari!

Due della benemerita arma subito si mossero e andarono dietro a cumpari Janu. Trovarono

la povera donna appesa davvero come una gallina al crocco, o, per dare meglio

l’idea, vista la mole, a un tonno appeso all’uncino su cui si squarta e si tira su nel palischermo;

solo che non era un crocco, un uncino ma una robusta “lenza” da pesca

d’altura, con tanto di nodo scorsoio, che più si tira e più si stringe. Il capo era ben legato alla ringhiera del balcone. La corda era abbastanza lunga, da fare penzolare il cadavere alle folate di vento piuttosto freddo che tiravano la mattinata di Santa Lucia.

– Ci teneva a vestir bene la signora! Sembra una matrona! – disse uno dei due, un giovanotto piuttosto smilzo settentrionale: si capiva che non era siciliano perché noi non usiamo quella parola o almeno quella pronuncia. Egli infatti stette ad osservarla attentamente

per qualche istante.

– Avìa statu ê vespri â cattidhrali! – si limitò a dire cumparì Janu.

– E voi come lo sapete? – intervenne a dire l’altro, mentre il primo rimaneva ancora a osservare

il cadavere che penzolava, smosso dal forte vento come una bandiera, cercando

di cogliere qualche particolare – Non avete detto di aver rincasato adesso dalla pesca?

– Oggi è Santa Lucia e vossia sapi ca chiddhi d’’o scogghiu â sira prima vanu ê Vespri

sulenni pi divuzzioni â santa patrona ’i Sarausa! Vossia di unn’è?

– Non importa che voi sappiate di dove siamo! – rispose questa volta lo smilzo settentrionale

– Importa invece sapere se si è impiccata o è stata impiccata. I moventi?

– Pirchì vinti?- domandò cumpari Janu, che in italiano non era affatto forte – Pi ’mpiccarisi

nun ha abbastatu sulu iddha?

– Ho chiesto i moventi, ossia i motivi, le cause, per cui è stata impiccata o, come dite

voi, si è impiccata. Voi che dite?

Cumpari Janu, che aveva, come si suol dire, il carbone bagnato, rimase un po’ in disagio;

ma solo un po’ perché, astuto qual era, furbo come una volpe, si riprese subito e rispose:

– E chi ni sacciu! Chi ni pozzu sapiri, iu! Povira Luciuzza! – e fece tale scena, da farsi

spuntare le lacrime sul serio – Chi beddhu onomasticu facisti!

I due convennero che bisognava avvertire subito il procuratore e l’esperto di medicina

legale:

– Mentre io torno in caserma ad avvertire chi di dovere – disse lo smilzo settentrionale,

che dei due era ilo graduato – voi non muovetevi di qua!

– ’A putemu scinniri, ’ntô mentri?

– Ho detto voi non muovetevi di qua! Capito?

– E cu’ si movi, allura?!

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Si era fatto già giorno e cominciò qualcuno a passare da lì, anche se era giorno di festa.

Scorgendo cumpari Janu e il carabiniere, il primo che si trovò a dare un’occhiata da

quella parte fu curioso e domandò:

– Chi fu? C’è cosa, cumpari Janu?

– Morta è!… Appinnuta! – rispose sforzandosi di trattenere i singhiozzi, che, in verità, ci

voleva più sforzo a farli…

– Bih, mischinezza! Comu fu? Cu’ fu?

– E cu’ avia a ’ssiri? Iddha stissa, s’appinniu! ’N colpu di pazzia, fu, di fuddhania!…

In men che non si dica, gente ne accorse tanta: quel quartiere è centrale. Tutti a osservare,

tutti a domandare: -Comu fu? Cu’ Fu? – Il perfido cumpari Janu si sforzava solamente

di trattenere i finti singhizzi, asciugandosi con un fazzolettone rosso le lacrime che

non spuntavano.

Giunse anche don Libboriu, ma sentendo quel chiacchierio e vedendo quella gente, si

affrettò a scomparire: lui ne doveva sapere qualcosa: era infatti l’amante di donna Lucia

e immaginò subito cosa fosse accaduto:La sera dei Vespri, infatti, egli era stato in casa

di lei, che in cattedrale non vi era andata affatto e si era intrattenuta a letto con lui, sapendo che il marito era andato a pescare e sarebbe tornato solo nelle mattinate. Invece, siccome l’indomani era la festa di Santa Lucia e la fortuna aveva voluto che pesce ne

avesse preso in abbondanza in poco tempo, era tornato che appena era suonata la mezzanotte, portando il pesce a casa. Lei aveva sentito il rumore per la scala e aveva fatto

fuggire in fretta l’amante, dalla porta segreta – sapete che in quei palazzi ce n’era sempre qualcuna – ma non così in fretta che compari Janu, con la coda dell’occhio non avesse visto un’ombra.

– Cu’ c’era cu tia? – le aveva domandato il marito, che già si sentiva sulla fronte qualcosa

che gli faceva prurito…

– Nuddhu – aveva risposto donna Luciuzza, mentre si andava un po’ rassettando.

– Comu nuddhu?!…

– Nuddhu, ti dicu! Nuddhu! Sula era!…

– Ci su’ allura ’i spirdi?

– Nuddhu, t’âggiuru!

– Dimmi cu’ c’era, Luciuzza, sinnò a tia fazzu addivintari spirduta?

Lei a dire che non c’era stato nessuno e lui a insistere a voler sapere chi c’era stato. A

poco a poco cumpari Janu diventò una bestia, una bestia feroce, gli occhi gli diventarono

di fiamma; avrebbe voluto prenderla a ceffoni, strapazzarla, massacrarla, ma si tratteneva:

era furbo fin troppo per non pensare che quella sarebbe stata capace di andare

dai carabinieri, mostrare i lividi, le ammaccature, se non peggio, all’ospedale, per mandarlo

in galera e godersi così il suo amante…

– Vidi ca si nun mi dici cu’ c’era cu tia, pi quanto è veru ca sugnu ’n galantomu, ’n omu

d’anuri, ca certi cosi nun li supportu, ti scannu!

E lei sempre a negare; anzi a un certo punto era stata fin troppo provocatrice: – E ammazzimi!

Ammazzimi! Accosì finisci in galera, a casa cu ‘’n occhiu, ca è cà vicinu!

E gli porgeva il collo. Il collo! Fu un lampo! Un’illuminazione! …Nella stessa stanza

c’erano alcuni attrezzi da pesca, anche un conzo… fili di tutti gli spessori, anche quelli

che avrebbero potuto reggere il peso di un tonno anche ben più pesante di un uomo, di

una donna, specialmente, come donna Lucia, che sottile e delicata com’era, non raggiungeva

nemmeno il mezzo quintale…

Ne scelse uno adatto, di un paio di metri: scorrendo per il collo avrebbe cancellato benissimo

le sue impronte! Donna Lucia ebbe un brivido, capì cosa intendeva fare il marito,

ma non ebbe più il tempo di fuggire dalla stanza, di gridare, di muoversi, ché quello,

da esperto del mestiere, le passò come un lampo il cappio al collo, la trascinò dal letto al

balcone che già aveva perso i sensi: legare l’altra punta della corda al balcone, sollevarla

ormai inanime e lasciarla pendere come un pupazzo, era stata questione di pochi attimi.

Era uscito nuovamente di casa, portandosi dietro la sporta del pesce prima pescato, era

tornato sulla sua barca: mettersi al largo senza che nessuno si fosse accorto di nulla, era

stata una cosa da nulla. Sul far del giorno, come faceva al solito, era tornato a casa, era

entrato nella camera da letto, dove a quell’ora donna Lucia continuava, di solito, a dormire,

aveva cominciato a chiamarla, prima sottovoce, poi a squarciagola, senza, ovviamente,

sentire risposta; quindi era andato in caserma: un piano veramente diabolico!

Il piano diabolico funzionò perfettamente in tutti i particolari: nessuno immaginò mai

che fosse stato lui a impiccare la moglie:

“’N colpu di pazzia fu, di fuddhania! – tutti si dissero – Poviru cumpari Janu; nun la miritava

’sta disgrazzia!”

“E Don Libboriu?”- direte voi : quello non parlò affatto; riteneva, infatti, che se avesse

parlato ci sarebbe andato di mezzo anche lui:

– I moventi? – aveva domandato lo smilzo carabiniere settentrionale. Non sapeva che in

Sicilia, a quei tempi specialmente, i tradimenti si pagavano salato!

Ma non finì lì. Cumpari Janu a letto non sapeva dormire solo: era abituato a dormire con

donna Lucia, senza mai essersi accorto che lei da qualche tempo, appena messasi a letto,

si voltava dall’altra parte, dicendogli che si sentiva morire dal sonno e davvero si addormentava

subito, che pareva una statua…

Cominciò, perciò a soffrire di insonnia, ad avere gli incubi. Appena chiudeva un po’ gli

occhi li riapriva di soprassalto, saltava a sedersi nel letto tutto tremante, gridando: – ’A

spirduta! ’A spirduta!

Che gli apparisse davvero il fantasma di donna Lucia, chi lo può dire?

Si alzava dal letto, invaso dal terrore, accendeva il lampadario, pensando che con la luce

il fantasma sparisse… ma no! Il fantasma lo doveva avere dentro, nella coscienza;

andava in cucina , a prendersi una “carmìna”, due, tre… fino a stordirsi, ma il fantasma

gli era sempre davanti agli occhi! Si aggirava di stanza in stanza per la casa, pallido e

stralunato che pareva lui stesso uno spirito. Allora si vestiva in tutta fretta e usciva di

casa, sempre cercando di sottrarsi alla terribile visione mentre, tremando come una foglia,

arrivato in piazza vi si aggirava attorno finché incontrava qualcuno, che vedendolo così stralunato gli domandava cosa avesse; egli allora si stringeva forte a lui e con un fil

di voce, stremato, pallido e madido di freddo sudore,gli diceva : – ’A spirduta! ’A spirduta!

Furono pochi giorni, o meglio poche notte, chè l’ultima fu ancora più terribile. Appena

chiusi gli occhi sobbalzò con il cuore in gola e così com’era, in mutandoni fuggì di casa, questa volta urlando come un forsennato:

– ’A spirduta! ’A spirduta! Cu iddha mi voli! Cu iddha!…

Siccome era appena la mezzanotte e parecchi non erano andati a letto, accorsero a quelle

urla: lo videro barcollare mentre con tutto il fiato che aveva in gola andava gridando:

-’A spirduta!…’A spirduta!…Vattinni!

Cadde e non si mosse più: un infarto lo aveva fulminato. Da allora quell’angolo di Ortigia

venne chiamato con il nome con cui oggi tutti lo conosciamo. Ma lo spirito non l’ha

visto mai nessuno.

Il palazzo Montalto è vicino a via dei Tintori, nella Spirduta

Via dei Tintori. inizio del labirintico quartiere di vie, viuzze, vicoli, ronchi e cortili

Le leggende spesso non hanno una sola versione:

dipende dal significato che si dà alla parola.

Come quella de “’I du’ frati” ha due interpretazioni

così ne ha due quella della “Spirduta”

“La spirduta ossia la dispersa”

La bambina sperduta in via dei Tintori

La via dei Tintori e la via dei Candelai ricordano le associazioni medioevali al tempo

dei Comuni, quando c’erano le arti maggiori e le arti minori. A Siracusa sono le ultime

due vie che portano ancora il nome di circa un millennio addietro. La via dei Candelai,

però, è una di quelle viuzze che da via Cavour si biforcano a pettine e vanno verso la

marina. La via dei Tintori, invece è un autentico lungo labirinto che da via dei mergulensi

sfocia in via Dione.

Era, come, la Giudecca, un quartiere nel cuore di Ortigia, abitata anch’essa dagli Ebrei:

infatti essi provenivano dagli antichissimi Fenici, che avevano per tradizione la colorazione

delle stoffe con la porpora, rosso vivo: avete presente come vestono i cardinali

ancora oggi? Non per niente si chiamano porporati. Tale colore si otteneva con la bollitura

di quei molluschi che a Siracusa chiamiamo “vuccuna”, una sorta di lumaconi marini

gustosissimi che ancora oggi mangiamo volentieri.

Mentre la Giudecca è rimasto un caratteristico quartiere con una strada centrale dritta,

abbastanza larga, da cui si dipartono dai due lati, a levante e a ponente, tanti vicoli tutti

dritti e perpendicolari, la via dei Tintori è ancora oggi un autentico budello viario attorcigliato,

tortuoso piuttosto lungo e molto più lungo era prima dello sventramento che

venne fatto per realizzare, sotto il fascismo, piazza Archimede e via del Littorio, che poi

assunse il nome di Corso Matteotti.

Ora avvenne, alcuni secoli addietro, al tempo dei viaggiatori stranieri, anche molto importanti,

come Goethe, il Winchelmann e tanti altri, che giunse a Siracusa, da Malta, che aveva con la città aretusea degli scambi commerciali, storici e turistici molto intensi, un

bastimento carico di visitatori. Tra di essi vi era anche una coppia di sposi. Essi avevano

una bellissima bambina, di appena una mezza dozzina d’anni, dai capelli d’oro e dagli

occhi di cielo.

Tra la comitiva c’erano tante persone che si conoscevano e ce n’erano che erano anche parenti fra di loro, come la coppia di giovani sposi. Pertanto la bimbetta, mentre tutti

quelli della numerosa comitiva, appena giunti alla marina, cominciarono a procedere in un certo ordine, un gruppo dietro l’altro, per avviarsi verso la fonte Aretusa, per poi arrivare

a piazza duomo, ora si stava accanto ai genitori, tenuta per mano dalla sua mamma,

ora se ne staccava per raggiungere, correndo allegramente, questo o quel parente o

amico dei suoi.

Si riunirono tutti in uno dei caratteristici localini che anche allora in quei paraggi

c’erano: uno di quelli che esponeva l’insegna con il detto: “Qui si vende vino e si fa da

mangiare”. Si rifocillarono perbenino allegramente e poi ripresero la visita.

Così la vivace bimbetta andò di nuovo saltellando e correndo avanti e indietro, fino a

quando giunsero davanti al Palazzo Montalto. Tanti si fermarono ad ammirare le colonne

bifore e trifore di quella meravigliosa costruzione medioevale, sveva; altri si inoltrarono

per la stretta e tortuosa via dei Tintori, per dirigersi a visitare, scendendo, il

tempio di Apollo e poi avviarsi verso il bastimento per il ritorno

A rimanere con il naso in su rimase, e per parecchi minuti, a osservare con la più viva ammirazione, la coppia di sposi, senza minimamente preoccuparsi che la loro figlioletta

si allontanava saltellando giulivamente – tanto, a lei, cosa importava di quell’antico palazzo?

– perché pensavano che la loro figlioletta faceva, tra loro e gli amici e i parenti,

la spoletta. A un certo punto si inoltrarono anch’essi, tranquillamente, per la serpeggiante

via dei Tintori. Non scorsero la bimba nè la videro venire incontro a loro. Tuttavia

non si preoccuparono, perché pensarono che con qualcuno degli amici o dei parenti doveva

essere! Procedettero senza alcun sospetto che si fosse potuta smarrire.

Quale fu il loro stupore, quando, risaliti tutti a bordo per la partenza, e cercando la bimba

e domandando a ognuno dei gitanti, si accorsero che la loro bimba non era con nessuno!

– Dov’è Paoletta? …Avete visto Paoletta? – domandarono nella loro lingua, che noi traduciamoin

italiano per comodità nostra e dei lettori.

– Mentre voi eravate fermi davanti al palazzo Montalto, era con me – disse uno dei parenti

– Non avendola più vista, ho pensato che fosse corsa da voi!

Intanto il bastimento aveva levato l’ancora e cominciò a muoversi a vele spiegate e ad

allontanarsi dalla panchina. Il padre della bambina cominciò ad urlare con quanto fiato

aveva in gola:

– Ferma! Ferma! Comandante, torniamo indietro! Mia figlia non è a bordo! Abbiamo

perduto la bambina!

– Come?…Dove?… Quando? ..Perché vi accorgete solo adesso, incoscienti?

– Ferma!…Ferma!…Torniamo indietro!…La mia bambina!…

– La nostra bambina!- riuscì appena a dire la madre e svenne. Si creò una grande confusione:

il marito corse a dare aiuto alla moglie. Il burbero comandante ne approfittò per

proseguire la rotta :

– Appena arriviamo alla Valletta – si disse – questi incoscienti si prenderanno la <speronave>

e in pochissimo tempo saranno di nuovo a Siracusa a riprendersi la bambina!

Non posso fermare la mia nave per due irresponsabili che non sanno fare il loro dovere

di genitori, di badare alla propria figlia, mentre a tanti preme arrivare in orario a Malta

perché hanno i loro impegni, i loro appuntamenti!

E tirò dritto con la sua faccia di bronzo. Mal gliene colse, a lui e, purtroppo, a tutti quelli

che erano a bordo con lui!

Improvvisamente, infatti, prima che si potesse scorgere da lontano l’arcipelago maltese,

si scatenò una terribile tempesta. Il cielo divenne cupo come una notte senza stelle, il

mare si gonfiò così forte che sembrava un’immensa pentola che ribollisse. Si alzò un

uragano rabbioso che sembro una dragunara, una tromba d’acqua altissima L’albero

maestro si spezzò con uno schianto che parve l’urlo d’un drago colpito a morte. La nave

cominciò a imbarcare acqua rapidamente, tra le grida dei poveri gitanti e in men che non

si dica colò a picco, inghiottita dalle onde gigantesche. Mai, prima, si era registrata una

tragedia così…tragica e totale!

E la piccola Paoletta?.

Quando non aveva visto più nè la mamma nè papà, né nessuno dei parenti e conoscenti

ed era rimasta sola, sperduta in quel labirinto, aveva cominciato a chiamare, poi a gridare

e a piangere disperatamente:

– Papà!…Mammina!…Dove siete?…Aiuthooo!

Nessuno le aveva risposto, per quanto lei avesse raddoppiato le grida disperatamente.

A un certo punto, sentendo quelle urla disperate si era affacciata alla porta di un basso

una vecchina:

– Chi c’è, biddhuzza? Chi fu?

– Papà… la mamma!

– Cu’ si’?

La poverina continuava a piangere da fare impietosire persino i macigni. Allora la vecchina

chiamò:

-Cuncittina, scinni, ca c’è ‘’na picciriddha ca chianci…Chi fa nun la senti?

– E chi voli?

– Scinni, ti dicu. Nun è di cà; pari furastera.; sta chiamannu so’ pa’ e so’ ma’… Spirduta

è…Spirduta!

Cuncittina, la figlia della vecchina, fece presto a scendere e affettuosamente andò dalla

bambina:

– La mia mamma!… Papino!.- disse singhiozzando.

Cuncittina si era sposata da diversi anni, ma non aveva avuto figli: le fece tanta pena;

l’abbracciò teneramente e le disse:

– Nun chianciri, biddhuzza! Vidi ca ora ’a chiamamu, ’a truvamu… e veni! Di unni si’?

La bambina continuava a piangere e a ripetere:- La mia mamma! Voglio la mia mamma!…

Cuncittina rifece la domanda: – Di unni si’?

Poi capì che la bambina non aveva capito e cercò di farsi capire e di capire; non fu facile; pensò che, in fin dei conti, questo non era importante. L’importante era accoglierla

affettuosamente in casa, confortarla, farla mangiare…e aspettare che la venissero a prendere.

Ma chi poteva venire a prendersela. In effetti la Provvidenza aveva voluto che solamente lei si salvasse. Quando a Malta seppero della tremenda tragedia, pensarono che

anche lei fosse morta e non la cercarono.

A poco a poco Cuncittina riuscì a calmarla, a portarla dentro facendole capire, più con i gesti che con le parole, come si fa con i sordi, di stare tranquilla che presto i suoi sarebbero

venuti a prendersela. Appena la condusse in casa, nel piano di sopra, Cicca, la vivace barboncina di Cuncittina le venne incontro scodinzolando festosamente. Non tardarono

a fare amicizia: tra bambini e cagnolini fanno presto a capirsi e a volersi bene.

Per Cuncittina fu come le fosse nata una figlia già bella e cresciuta e così fu pure per il suso giovane marito pescatore. Come pescatore, era andato e continuava ad andare spesso

a Malta. Seppe del terribile naufragio in cui tutti erano periti. Però non disse a nessuno

che Paoletta si era salvata e che era diventata sua figlia. Tutti però sapevano che era

la Spirduta. Così, col tempo, quel quartiere venne chiamato con quel nome.