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QUANDO UN CONTADINO TROVO’ DUE ALIENI CHE FRUGAVANO IN CASA SUA

Ci sono casi inspiegabili di incontri ravvicinati fra alieni e umani. Fra quelli più eclatanti avvenuti in Sicilia, uno riguarda proprio la città di Archimede.
Il caso avvenuto nell’autunno 1983 a Siracusa sembrerebbe avvalorare l’ipotesi di visioni indotte, se non addirittura di veri e propri ologrammi trasmessi tra le mura domestiche dei testimoni. Protagonista il signor Corrado C., che una mattina si svegliò scorgendo due “persone” curiosare in camera sua. Pensando a dei ladri ed approfittando del fatto che una delle due si era spostata nella stanza attigua, si alzò senza far rumore per sorprendere alle spalle l’uomo rimasto nella sua stanza. Prima però che potesse agguantarlo, questi si girò verso di lui rimanendo a fronteggiarne lo sguardo per lunghi attimi. Poi guardò verso il cielo attraverso la finestra socchiusa e sotto gli occhi del testimone cominciò a diventare trasparente iniziando dal basso fino a svanire nel giro di pochi attimi. Ripresosi dallo shock il testimone cercò per la casa l’altro intruso, ma senza riuscire a trovarlo. Questo l’identikit del misterioso visitatore, che secondo il testimone qualche sera dopo si manifestò nuovamente nella sua abitazione per pochissimi minuti: altezza tra il metro e sessanta ed il metro e settanta; carnagione sul grigio chiaro-azzurro; occhi acquosi e dallo strano taglio; labbra sottili e piccole; vestito con una tuta verdastra aderentissima che ne ricopriva le orecchie ed il capo, lasciandone scoperta metà fronte ed il volto; guanti alti fino alla metà dell’avambraccio e stivaletti fino a metà polpaccio; in testa un cappellino a punta di tipo “goliardico” di colore marrone.

Quale rapporto possa poi sussistere tra casi del genere e le più tradizionali e gotiche apparizioni di fantasmi e defunti, anch’essi spesso manifestatesi ai piedi del letto del testimone all’atto del risveglio, rimane argomento di approfondimento soprattutto in chiave psicologica.
Andiamo avanti, la domenica di Pasqua del 6 aprile 1980 era tutt’altro che una bella giornata di sole, come tante altre in Sicilia allorché l’arrivo della primavera si accompagna a condizioni climatiche particolarmente serene. Ciò nonostante ed a dispetto della festività, Francesco T., un contadino 66enne, si era ugualmente recato di buon mattino in un podere di sua proprietà sito in contrada Biddi, per sbrigare alcuni lavori. Ma a mezzogiorno era già sulla via del ritorno, la strada provinciale Acate-Caltagirone che stava percorrendo a bordo del proprio scooter, quando, giunto a circa due chilometri dal centro abitato di Acate dove egli abitava, scorse in lontananza quelli che gli sembrarono due ragazzini di 6-8 anni fermi sul ponte Dirillo.

Neanche il tempo di chiedersi cosa ci facessero due bambini soli in quel luogo piuttosto isolato che ecco i due ragazzini trasformarsi sotto il suo sguardo esterrefatto in due individui altissimi, con barba e capelli lunghi, veste e mantello rossi e sandali ai piedi, che sparirono repentinamente dopo avergli rivolto una specie di cenno di saluto. Superato il momento di choc, il testimone raggiunse il suo paese, rendendo subito partecipi i compaesani di quanto gli era accaduto e motivando i più curiosi a recarsi sul luogo da egli indicato, dove a detta del corrispondente locale del quotidiano La Sicilia gli stessi avrebbero rilevato “numerose impronte di notevole grandezza sparse in un raggio di circa 8 metri”, lasciate da quelli che alcuni non persero tempo ad identificare addirittura con San Giovanni e lo stesso Gesù Cristo, scesi appositamente in Terra, nella giornata pasquale, per illuminare e rinsaldare la fede degli acatesi.
In realtà il particolare del ritrovamento delle tracce fu smentito da quanto successivamente appurato dall’ufologo ragusano Giuseppe Nativo, che all’epoca si occupò del caso, evidenziando nel proprio rapporto come invece i carabinieri accorsi sul posto non rinvennero alcuna traccia. E allora: fantasia o realtà? Immaginazione o stanchezza? Noi, prosaicamente, propendiamo per una burla, forse anche un pesce d’aprile in ritardo di qualche giorno. 
Di ben diverso spessore invece il caso successivo – l’unico del periodo in esame “ufologico in senso stretto” – che si verificò circa un anno più tardi, poco dopo la mezzanotte di un giorno imprecisato, compreso tra il 15 ed il 20 aprile 1981. Protagonisti due poliziotti che, terminato il proprio turno di lavoro, stavano facendo rientro da Catania nella propria casa di Comiso (RG). Avevano appena superato il bivio per Lentini (SR) quando entrambi videro la strada dinanzi a loro illuminarsi di rosso, mentre il motore e l’impianto elettrico dell’auto si spegnevano bruscamente. Bloccata l’auto sul margine della carreggiata, i due videro quindi un oggetto rosso-granata a forma di due scodelle contrapposte atterrare sulla strada a circa 50 metri da loro, poggiandosi su un sistema di “ruote” scure. Dalla parte superiore dell’oggetto (largo circa 3 metri ed alto poco più di 1) si aprì quindi uno sportello dal quale, sollevatisi dalla posizione sdraiata che occupavano sui rispettivi sedili, fuoriuscirono due entità. Gli esseri, che si muovevano lentamente, a scatti, “come robot”, indossavano delle tute scure con una fascia “metallizzata” a tracolla e degli “scarponi” neri. Alti circa 1,70 mt., avevano una testa grossa (forse coperta da un casco) con due “occhi” rossi a forma di sfera ed una terza al centro della fronte. Inoltre tutt’intorno alla testa c’era un continuo “scintillio”, e le “mani” (dalle quali pure scaturivano scintille) erano costituite da un “fascio di fili”, alcuni dei quali si prolungavano sino a collegarsi alla testa.
Per un periodo indefinito le due entità rimasero ferme sulla strada, guardando verso l’auto dei testimoni, gesticolando e dando l’impressione di parlottare fra loro. Poi si piazzarono l’uno di fronte all’altro di profilo, mettendo in evidenza una sorta di zaino che portavano sulle spalle. Quindi risalirono sul loro veicolo, ripresero posizione sui sedili, chiusero il portello e con un forte sibilo schizzarono in un attimo via. A quel punto il poliziotto che non era alla guida dell’auto sollecitò il collega a riaccendere il motore e a riprendere il viaggio, che compirono ancora frastornati e senza pronunciar fra di loro parola. Giunti a Comiso alle 3:15 di notte (cioè con quasi due ore di ritardo rispetto al tempo di normale percorrenza del tragitto), i due si recarono all’Ospedale Civico dove, avvisati da una loro telefonata, li raggiunsero alcuni altri colleghi ai quali raccontarono l’incredibile esperienza.
Nei giorni seguenti i due testimoni sarebbero stati interrogati a lungo da non meglio precisati “superiori” ed “ufficiali”.

A tal proposito vale la pena di sottolineare che il racconto dell’evento poggia sulla sola testimonianza (rilasciata in via confidenziale a Giuseppe Verdi ben 14 anni dopo l’accaduto) (6) del poliziotto che guidava l’auto, il quale, timoroso di una eventuale ricaduta negativa sulla propria immagine, si mostrò fortemente restio a collaborare all’inchiesta non fornendo, tra gli altri particolari che avrebbero potuto costituire un riscontro al suo racconto, non solo i nomi dei medici e dei colleghi coi quali a suo dire lui ed il collega si confidarono presso l’ospedale di Comiso, neppure l’identità del collega col quale avrebbe condiviso la sconvolgente esperienza. Stando così le cose, è evidente che non è possibile esprimere una corretta valutazione dell’intera vicenda; e men che meno del particolare – che il testimone, sebbene non in grado di fornire all’inquirente ulteriori dettagli sul viaggio di ritorno, ha tenuto a rimarcare – relativo all’enorme lasso di tempo impiegato per rientrare a Comiso dopo l’esperienza vissuta, quasi a voler implicitamente suggerire la possibilità di un’esperienza di “missing time” quale segnale di un IR.3 ben più articolato di quanto egli stesso ricordi.
In una situazione ancora più pregiudizievole di verifica in termini di attendibilità, ci troviamo invece nel caso del racconto quanto sarebbe accaduto alcuni mesi dopo, il 24 ottobre 1981, a due cognati, Giuseppe B. e Angelo R. L’unico approfondimento disponibile sul caso si basa infatti sul racconto fatto agli inquirenti del gruppo AURA di Gela non dai due testimoni (che non vollero in alcun modo collaborare, ma da un loro intimo amico, a sua volta protagonista qualche giorno dopo dell’avvistamento di una luce notturna e su una più scarna versione fornita da uno dei carabinieri a cui i due testimoni si sarebbero rivolti per denunciare l’accaduto. 
Questa comunque la ricostruzione disponibile: intorno alle 19:45 del 24 ottobre 1981 i due uomini stavano pescando nei pressi della foce del fiume Salso, alla periferia di Licata, quando videro delle luci emergere dal mare e “volare” sulla sua superficie, seguite, a distanza di circa cinque minuti, da “tre oblò luminosi allineati”, fuoriusciti sempre dal mare a circa 40 metri dalla riva. Improvvisamente le due “luci” laterali presero ad avvicinarsi alla spiaggia. Giuseppe allora prese una torcia elettrica e la puntò verso la battigia, subito inorridendo alla vista di un essere alto circa due metri, immerso in acqua sino alle ginocchia. La creatura (che non fu vista da Angelo) appariva “alta e pelosa” e Giuseppe potè osservarla solo per una manciata di secondi perché la torcia si spense improvvisamente. Contemporaneamente egli percepì anche una forte sensazione di calore, tanto da sentire la sabbia sulla quale camminava a piedi nudi asciugarsi rapidamente. Poi la paura ebbe il sopravvento su di lui e, benché si sentisse fortemente attratto verso la riva da una forza misteriosa, pensò meglio di darsi alla fuga imitato dal cognato, che prima di scappare fece però in tempo a vedere le strane luci allontanarsi.
Fuggendo, i due presero direzioni diverse. Cosa successe di preciso ad Angelo non ci è dato sapere, salvo che, dopo essersi calmato, tornò indietro a recuperare l’attrezzatura da pesca precipitosamente abbandonata sulla spiaggia. Quel che sappiamo è invece che Giuseppe, fuggendo, si imbattè in una pattuglia di carabinieri ai quali narrò confusamente l’accaduto; i militi tuttavia, sostenendo di non avere l’equipaggiamento adatto, anziché recarsi subito sul posto, lo accompagnarono in caserma, dove gli toccò raccontare nuovamente l’accaduto al maresciallo, che finalmente decise di effettuare un sopralluogo al comando di una squadra di 6-7 carabinieri, equipaggiati con riflettori ed armati.

La squadra giunse sul lungomare verso le 21:00, ma sul luogo (distante 300-400 metri) dove era stata vista l’entità fu inviato in avanscoperta un solo militare che tornò presto indietro allarmato da un forte chiarore proveniente da dietro una collinetta di detriti posta tra lui e la spiaggia. Sull’origine di quella luminosità i carabinieri però rinunciarono ad indagare più a fondo, accontentandosi della spiegazione del maresciallo secondo il quale si trattava delle luci provenienti dallo stabilimento dell’ANIC (distante addirittura 35 km.).

Solo dopo aver accompagnato il testimone, ancora molto agitato, al pronto soccorso, ritornarono sul posto dove però il chiarore era ormai scomparso e dove non rinvennero alcunché di anomalo.