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IL RACCONTO DI TOI BIANCA SUL LICEO TOMMASO GARGALLO

Ora che tutto è finito, ora che sono rimaste solo macerie, ora che gli hanno tolto l’anima, ora che classi e corridoi sono irriconoscibili, ora che hanno divelto i pavimenti calpestati dai nostri passi…

…ora non resta che aspettare.

Fra qualche anno anche il ricordo vivente sarà spazzato via dal tempo e non resterà più niente, solo qualche citazione di storia patria, qualche foto ammuffita, qualche annale dimenticato, roso dai tarli. Quando anche l’ultimo alunno che ha frequentato il Liceo Gargallo in Ortigia, avrà ricevuto il benservito dalla vita, quelle pietre, che a fatica si sono rette per secoli, saranno finalmente libere di crollare, polvere alla polvere, libere di arrendersi al tempo e alla crudeltà sciroccata di Siracusa.

Non ci sarà nulla di grandioso, nessuna magia turbinosa come quella che pose fine a Macondo, solo un penoso sbriciolamento fra erbacce e ratti e residui dei cantieri succedutisi nel lungo tempo dell’accidia, fra le urla, via via più flebili, di ex studenti, troppo stanchi e distratti per combattere, troppo aridi per urlare, troppo ipocriti per bestemmiare contro il dio delle scuole perdute.

Le targhe di marmo a metà delle due rampe di scale, con i loro caratteri dipinti di rosso, cadranno stanche per terra e si frantumeranno, consegnando alla desuetudine la “vostra semenza” dantesca e l’ ”alme sol” di Orazio, e saranno calcinacci, spinti via dal manovale incolpevole o dal drogato in cerca di rifugio. Alieni estranei che vedranno, nei sostegni arrugginiti che reggevano quelle frasi, solo dei vecchi chiodi appesi al muro e non le icone di una crocefissione della memoria.

Non ci sarà colpevole, non ci sarà assassino, non ci sarà carnefice, non ci sarà untore della peste della dimenticanza, della dissenteria d’identità; solo una melassa purulenta di blande recriminazioni, di annoiate ricostruzioni, di accuse estemporanee dettate da beghe di giornata, destinate a passare in settimana, nel tedio della canicola di giornate del XXI secolo, interessate  a faccende più attuali.

Non ci sarà alcun processo per l’omicidio del Liceo e nemmeno per la lapidazione del futuro e neppure per lo stupro della straordinaria possibilità che il Gargallo poteva rappresentare per i ragazzi del “classico”.

Ma io, gridando ingiurie al vento, vomitando rancore rattrappito, reiterando impotente dolore, vorrei che per un istante gli innumerevoli uomini piccoli, cinici autori della distruzione, capissero, o almeno conoscessero, cosa hanno cancellato, in una perversa sequela di restauri annunciati, a volte iniziati, mai andati oltre la furia demolitrice di ciò che aveva una vita antica.

Anzi no. Non è agli infimi sindaci, presidenti, assessori, onorevoli e senatori, stupidi autori dell’omicidio, che vorrei parlare.

Vorrei essere un mediterraneo, accaldato, Roy Batty, replicante di un vissuto già terminato. Vorrei avere la capacità di raccontare alle centinaia di piccoli Deckard, studenti di una anonima periferia senza storia e senza ragione, quello che hanno perduto, ciò che è stato loro rubato, vorrei donare alle adolescenti Rachel contemporanee le fotografie del loro passato, un passato che non hanno avuto il privilegio di vivere.

Io ne ho viste di cose che voi ragazzi non potete nemmeno immaginare… resse di motorini nel fragore del cortile, tappi di serbatoi  che venivano rubati e ancora trafugati in un interminabile tempo circolare di furti fra moto con nomi quasi dimenticati: Aspes, Califfo, Trotter, Ciao, Motom, Fantic Caballero. E ho visto caos vitale dove ora ci sono erbacce, pavimento sconnesso per desuetudine e non levigato dal calpestio febbrile. Ho visto la modernità farsi largo a gomitate fra le stanze del vecchio convento, blandite da voci squillanti e morbidissime, accarezzate da libri spaginati cadevano sui gradini, in tempi in cui gli zaini erano di là da venire e si arrivava con logori tascapane comprati dall’Amerikano o con le micidiali cinghie di gomma, armi improprie e precarie.

E ho visto pianti, dolori, tradimenti, baci clandestini, ormoni turbolenti, ho visto pudori e sfrontatezze, mani febbrili sotto le maglie alla ricerca di seni proibiti, labbra ingenue e voraci sotto archi che ospitavano secoli prima le preghiere bisbigliate dei monaci. Ho visto coppie affannate, appoggiate a muri dietro i quali pregavano le Orsoline della Mastrarua, che forse origliavano, turbate, l’ansimare giovanile e sospiravano l’amore a loro negato… perché dentro quel palazzo ogni gesto era nuovo e antichissimo, vietato e lecito, impregnato di storia e di domani, erano “egregie cose” cui attendere l’animo e giorni da rubare “quam minimum credula postero”.

Voi del terzo millennio siete figli della città uguale. La vostra brutta scuola del suburbio, meschinamente usurpatrice del nome “Gargallo”, potrebbe essere ovunque. Ma non è sempre stato così.

Gli uomini piccoli vi hanno sottratto l’orgoglio e l’alterigia della diversità che promanava da quei muri scorticati, incastrati fra i vicoli barocchi e il mare greco. Vi hanno defraudato della splendida arroganza che promanava da quel decrepito convento, vi hanno rapinato la consapevolezza, inconsapevole allora, d’essere terminali di cultura, eredi di una stirpe antichissima, destinatari del tatuaggio che “quel” liceo incideva nelle anime ragazzine e le rendeva, se non migliori, certamente speciali.

Ne ho visti di maestri straordinari che erano parte di quell’edificio, ne avevano gli stessi colori, la stessa spessa densità. Loro incidevano con pazienza il tatuaggio dell’appartenenza. Loro, giorno dopo giorno, aggiungevano un’altra elica del nostro dna, imponendoci la coscienza dei nostri limiti e iniettandoci la passione di sfidarli, la presunzione splendida di poterli superare. Loro erano il trait-d’union fra le cacofonie delle nostre vespe truccate, che stracciavano il silenzio afoso delle stradine dell’isolotto, e la responsabilità d’essere eredi e depositari del messaggio di quella terra nobile, levantina, decadente, colta e apatica, in cui avevano avuto la sorte di nascere.

Noi, noi, noi settimo cavalleggeri “dello scoglio”, accerchiati ma non perdenti, arroccati nella nostra solatia e privata Little Big Horn in mezzo allo Jonio, depositari di un culto segreto e negletto di Ortigia, allora abbandonata, che riempivamo a sprazzi con le nostre risate, con le nostre partite a tennis notturne nella deserta Piazza Duomo degli anni ’70.

Noi, noi, noi non frequentavamo il Gargallo, eravamo “del Gargallo”. Ci sentivamo gli eletti, l’autoreferenziale aristocrazia della gioventù cittadina, contagiati da una tenera protervia che ci contaminava il carattere attraverso i miti omerici, le liriche eterodosse di Saffo, le eterne tragedie di Euripide, la lezione di grandezza virgiliana e poi, via via, lungo la Commedia galeotta, immensa e feroce come chi la scrisse, il “Romanzo” intenso e ironico, la parola evocatrice leopardiana, attraverso le ubbie del secolo breve di Verga, di Pirandello, di Italo Svevo.

Condizionamento indelebile quanto inconscio; noi, noi, noi – a 16 anni non c’è spazio per altro che “noi” – eravamo agitati per le assemblee, per la partita, per “quella che mi guarda”, per la festa di sabato. Noi, noi, noi ascoltavamo “Supersonic” la sera alla radio e scoprivamo che c’era chi camminava su un wild side con le ragazze di colore a far “du dudu dudu dududu” e che c’era uno straordinario lato oscuro della Luna, un immaginifico Foxtrot, ma anche un giovanissimo cantautore che raccontava di una maglietta fina e stretta al punto che s’immaginava tutto.

E ho visto “baby baby” raccontate cavernosamente da Barry White e frammenti sparsi e irridenti di Ipponatte. Ho visto respiri di locomotive dei Jetro Tull e scolli caldi con l’olio, il sale e l’origano, sfornati all’ora della ricreazione in via Mirabella, comprati scappando con la complicità di vecchi bidelli, con lo spolverino e i baffi neri. Ho visto l’amore di Achille per Patroclo e le dita spezzate di Paul Newman nello “Spaccone” dentro la tv in bianco e nero, che correvamo a imitare nella vecchia sala biliardo di via Gemmellaro. Io ne ho visti di eroi, di filosofi intriganti che avevano ogni risposta per me, di fantasmi che s’aggiravano per l’Europa ed ho visto meravigliosi e robusti e gentili deejay che ci facevano ballare “Anima mia” e la Kc & Sunshine Band e straordinari esemplari di Don Camillo dal sorriso sardonico che tagliava le lunghe tonache nere.

E tutto questo avveniva all’ombra di quel palazzo fra i vicoli e il mare, col caldo asfissiante o con la pioggia che rendeva le strade viscide e micidiali in tempi il cui il casco non si usava. Tutto ruotava attorno agli archi dei frati, all’origliare delle suore e tutto trovava ordine entrando in quell’androne che ci ricordava che “Urbem Syracusas maximam esse Graecorum, pulcherrimam omnium saepe audivistis”. La più grande, la più bella e noi, noi, noi ne eravamo figli, i più grandi, i più belli, che da quelle finestre incrostate dalla salsedine guardavamo il mare, quando nei giorni di tempesta faceva appassionatamente l’amore con l’isola, e mescolavamo dentro di noi l’ansimare violento delle onde col roco organo di Jon Lord che ruggiva “Smoke on the water”.

Noi, noi, noi dell’amore puro di Petrarca per la sua Laura e degli scherzi a “Januzza a uobba”, sdentata puttana della vicina via Eolo. Noi, noi, noi dei voli di Pindaro e delle canzonacce volgari in rima.

Noi, noi, noi… eravamo fatti della stessa sostanza di quelle pietre…

E quando anche noi, noi, noi tra non molto finiremo sbriciolati come quelle mura che ci hanno plasmato, quando la nostra antica stirpe del tatuaggio indelebile si estinguerà per sempre, quando anche l’impotente furore svanirà in un patetico Alzheimer collettivo…

…allora tutte queste cose saranno perdute nel tempo, come lacrime secche.

Lacrime nella polvere.    

        Toi Bianca