DEMETRIO VITTORINI: NOI S’ABITAVA AL BORGO E TUTTI I GIORNI ANDAVAMO A SCUOLA IN BARCA
Per difendersi dai barbari, i bizantini fortificarono isole, penisole, promontori collegati alla terraferma da stretti istmi, e in quelle fortificazioni fiorirono nel Medioevo piccole città portuali, in Morea, in Dalmazia, in Sicilia e altri luoghi. Una di queste fu la nostra isola di Ortigia, lontana dalla terraferma solo un centinaio di metri. Nella seconda metà dell’Ottocento con la crescita della popolazione, il nascere di piccole industrie e nuovi commerci e l’arrivo della ferrovia, si costruì un ponte tra isola e terraferma e la cittadina straripò. La parte nuova si chiamò il Borgo. Pochi sapevano che il Borgo stava sorgendo sulle rovine di un’antica grande città greca che una volta s’estendeva per almeno quindici chilometri, e di cui Ortigia era stata solo una piccola parte. Noi s’abitava nel Borgo, e tutte le mattine mio cugino e io, come molti altri ragazzi, andavamo a scuola in barca. La scuola era sull’isola e c’era un servizio di traghetti su barche a remi che per un modestissimo obolo attraversava il porto piccolo e risparmiava ai borgaioli la lunga camminata fino al ponte. Inoltre la traversata era divertente. La gente chiacchierava, qualcuno scherzava, qualcuno litigava, sempre uno spettacolo in Sicilia. I barcaioli erano vecchi ex marinai o ex pescatori ed erano ben contenti di cedere i remi a noi ragazzi. Si remava in piedi o seduti, se s’andava controvento, e se c’erano due o tre barche a traghettare allo stesso tempo, noi ragazzi improvvisavamo una gara. Dopo le prime volte, quando mi fui impratichito bene dei remi, ero sempre io a vincere quelle gare. Fu una delle cose più belle che mi capitarono nella vita. Ero un ragazzo di città, arrivato dal nord spauracchio mingherlino, ma dopo alcuni mesi di mare ero io il più forte, il più sportivo (i ragazzi hanno bisogno anche di queste soddisfazioni per crescere bene). D’estate e, quando c’era scirocco, anche in altre stagioni, il porto era maleodorante. Si riempiva d’alghe che fetevano e nell’acqua, movendo orride membrane tentacolari, nuotavano bestie cilindriche d’un brutto colore. Sembrava che per muoversi assumessero e poi espellessero l’acqua. La prima volta che le vidi mi trovavo in barca (e non avevo ancora imparato a remare) con una zia nubile. L’accompagnavo a un cinema, credo, o forse a fare una visita. Le nubili in Sicilia, allora, uscivano solo se accompagnate. «Zia, cosa sono queste bestie? Come si chiamano?» La zia non rispose, anzi girò la testa dall’altra parte. Qualcuno in barca soffocò discretamente una risatina. Il barcaiolo remava con aria compunta, rispettoso e indifferente, ma agli angoli della bocca aveva i resti di un accenno di sorriso. Così chiesi poi ai miei compagni di scuola. «Si chiamano minchie di mare», disse uno. «Pacchi di mare», un altro. Insomma mendula o cunnus, pensai da latinista principiante e cercatore di parolacce sui dizionari. Ma non volli accontentarmi del vernacolo, Continuai la mia ricerca. In mio aiuto venne un libro d’avventure per ragazzi di un autore allora molto noto. II libro s’intitolava I pescatori di Trepang. Spiegava: dal malese teripang, una delicatezza per la cucina cinese. Messo sulla buona pista, continuai per vocabolari ed enciclopedie nella biblioteca del nonno e trovai l’italiano oloturia o cetriolo di mare e poi, in un dizionario inglese, il divertente Portuguese man-of-war, cioè la cannoniera portoghese, un termine destinato a diventare nonpolitically-correct e probabilmente già bandito dai dizionari più recenti. Comunque oloturia mi piacque e lo usai a scuola come blando insulto camuffato. A scuola la mania di scoprire e lanciare parole ed espressioni arcane aveva infettato un po’ tutti noi. Doveva essere la conseguenza degli studi classici di latino e greco, ma anche quella di lingue straniere. Per alcuni miei compagni anche l’italiano era una lingua straniera e per me c’era in più il contatto e la scoperta continua di un meraviglioso vernacolo. L’insegnante di francese definì un giorno il marinare la scuola école buìssonnière, cioè scuola sotto i cespugli, e noi subito ci facemmo sopra i nostri ricami, dicendo che a marinare in coppia, un maschio e una femmina, sotto i cespugli ognuno poteva imparare qualcosa dell’altro sesso. Diventò una frase molto popolare nel no-stro gergo scolastico, soprattutto perché quelli delle se-zioni che facevano inglese o tedesco non la capivano. L’insegnante di francese ci era particolarmente simpatico; aveva nome e cognome che io ora ho dimenticato, ma per noi era “Scopin”; non Scapin, malgrado ci aves-se fatto leggere Les fourberies de Scapin, ma Scopin perché portava i capelli tagliati en brosse, alla francese come si diceva allora – l’espressione crew cut arrivò molto do-po – e en brosse da noi era tradotto “scopetta” o “scopi-no”, da qui l’affettuoso soprannome. Ci facemmo su una filastrocca sul ritmo dei verbi irregolari francesi: se uno di noi nominava Scopin, era dovere degli altri reci-tare: «scoper, scopant, scopu, je scope, je scopus». Anche il nostro manzoniano insegnante di lettere s’attirò le nostre simpatie, e le simpatie dei ragazzi sono sempre incondizionate. Lo scoprimmo durante una passeggiata tra le rovine della città antica: venne fuori che era un pescatore e così alcuni di noi poterono parlare con lui di ami ed esche o di posti particolarmente pescosi, raggiungibili solo in barca. Il padre di uno dei nostri compagni era il “giardiniere” delle latomie dei cappuccini. Le latomie erano vecchie cave di pietra dell’antica città greca e il con-vento dei cappuccini, a picco tra le scogliere sul mare da un lato e i precipizi delle latomie dall’altro, segnava allora l’estremità nord del Borgo, mentre un tempo doveva essere stato un luogo per eremiti, come il de-serto egiziano. Il terreno in fondo alle latomie s’era ri-velato fertile per alberi d’arancio e di limone e gli agrumeti in Sicilia si chiamano giardini, da qui il ter-mine di “giardiniere” per l’uomo che se ne prendeva cura e che in quel luogo incantato era per me come l’immaginario giardiniere invocato dalla Maddalena. Attraverso quel nostro compagno, che si chiamava Colonna, come la storica famiglia dei principi romani, e il padre giardiniere, ci arrivò la notizia che, durante la quaresima, i frati non mangiavano né carne né pesce, ma solo minchie di mare, cioè oloturie. La cosa fece su tutti grande impressione. Ribrezzo soprattutto, ma quando pensammo al trepang che i ricchi cinesi mangiavano come una leccornia, ci venne il dubbio se la penitenza quaresimale non fosse poi così schifosa come ci appariva e decidemmo d’indagare. Colonna ci portò dal frate laico che faceva la cucina per il convento. «Ma veramente mangiate le minchie di mare?». La frase era vagamente offensiva per il fraticello che però, dopo breve esitazione, rispose: «Le assaggiasti mai tu?». La sua naturalezza c’incuriosì ancora di più e restammo d’accordo che gli avremmo portato quattro o cinque esemplari di oloturie e che lui le avrebbe cucinate per noi. Ci fu chi s’incaricò della cattura con retine, vincendo il ribrezzo. E poi ancora il ribrezzo dell’assaggio, ma come ce le preparò il frate, tagliate sottili in un guazzetto ricco di erbe e pepe, non le trovammo molto diverse come consistenza dai calamari o dagli anelli di totani cui eravamo abituati, solo un po’ dolciastri, un curioso agrodolce. «Penitenza per chi è schizzinoso» li definimmo, ma cibo normale per chi non sapeva cosa fossero o non li aveva mai visti vivi in acqua. Venne il giorno che l’insegnante di greco ci interrogò sulla Ciropedia. «Nonno perché ti nutrì di tante salse e intingoli d’oloturie?» Tradusse Colonna: «In montagna pane e carne conduce noi a saziamento». «Cos’è questa contaminatio? Da dove vengono fuori queste oloturie? Cosa vi siete inventati?». Corremmo in difesa di Colonna, ci addossammo una responsabilità collettiva e spiegammo come era avvenuta tutta l’epica storia. Infine l’insegnante apprezzò la nostra iniziativa e appassionata ricerca e finì col lodarci.
Demetrio Vittorini
(“Racconti e scoperte inutili” Interlinea Editore, Novara