Politica

“PROFESSORE COM’E’, TUTTAPPOSTO?” LA NOSTRA MAFIA DI PROVINCIA BABBA

Certe cose le ho scoperte solo da grande. Pare strano, perché uno pensa la Sicilia, la mafia, le stragi, però non è tanto vero, nel senso che ci sono posti della Sicilia in cui la mafia non la respiri con l’aria come a Palermo, a Trapani o anche a Catania: a Siracusa, più che altro, avevi a che fare con una delinquenza piccola, oppure sapevi con chi non ti conveniva litigare, però della mafia vera e propria, quella dei killer e dei grandi traffici, delle mattanze in mezzo alla strada, avevi una visione mediata dai giornali, dalla televisione, dai film, quasi la stessa visione di uno che abita a Modena o a Padova, penso. In effetti, ogni tanto, ci accorgevamo che qualche episodio era un po’ strambo, ma solo quando ci arrivava filtrato tramite gli occhi di qualcuno venuto da fuori. Per esempio, a metà degli anni Novanta, l’ufficio di mia madre spesò ai dipendenti un corso di inglese tenuto da un docente madrelingua, canadese. Era un ragazzo educato e anche simpatico, e tutti ne erano entusiasti. Al ritorno da queste lezioni, mia madre mi raccontava le cose buffe che succedevano, e durante uno dei primi incontri era successo che, mentre facevano un esercizio scritto ed erano tutti concentrati, c’era stato un boato. L’aula era dalle parti di corso Gelone, la principale arteria commerciale della città, e la lezione si svolgeva la sera sul tardi, per cui questo rombo si era sentito forte, segno che l’epicentro del suono doveva essere stato abbastanza vicino, e infatti anche qualche vetro si era messo leggermente a vibrare.
Mia madre e i suoi colleghi avevano alzato gli occhi dal foglio, si erano fermati un attimo ad ascoltare, e poi si erano rimessi a fare l’esercizio. L’insegnante canadese, invece, era scosso, però era canadese, quindi non è che si lasciasse andare al panico: si era alzato in piedi e aveva dato dei colpetti di tosse, sperando che qualcuno si dimostrasse preoccupato quanto lui. Invece niente, nessuno sembrava averci fatto caso, quindi a un certo punto non ne aveva potuto più e aveva chiesto: «What’s that?». E tutti lo avevano guardato come per dire: «Ma cosa?». E lui: «That sound, what was it?». E allora qualcuno si era reso conto che si riferiva al boato e aveva detto: «No, niente, tranquillo».

Mia madre i suoi colleghi parlavano poco inglese, per cui l’insegnante ci aveva riprovato con una delle poche parole italiane che conosceva: «Perché?». Allora qualcuno aveva avuto una reminiscenza di inglese bellico e aveva detto: «BOMB!». Il canadese, stavolta, aveva fatto una faccia più stupita che preoccupata, e aveva ripetuto incredulo: «Bomb?». E allora qualcun altro aveva detto: «Yes, yes, bomb!». E l’insegnante, stavolta quasi a bocca aperta: «Bomb? Why?». E allora mia madre, per chiarire meglio, aveva detto a voce alta: «EXPLOSION!», che era una cosa che all’epoca diceva una comica del Pippo Kennedy Show. Il canadese si era rassegnato e aveva detto: «What a strange town». Mentre me lo raccontava, mia madre rideva, vaglielo a spiegare al canadese che bombe tipo quelle erano abbastanza normali: un negozio non pagava il pizzo e gli facevano saltare la saracinesca, o la vetrina, però in sicurezza, a chiusura avvenuta, quando sul marciapiede non c’era nessuno. A Siracusa, in pratica, c’era la mafia delle province babbe, al massimo qualche estorsione: pure in certi quartieri delle grandi città canadesi lo fanno, disse tempo dopo l’insegnante di inglese a mia madre e ai suoi colleghi, la chiamano protection, nel senso che i delinquenti ti chiedono dei soldi per proteggerti da loro stessi. I delinquenti di Siracusa, alla fine, chi erano? Ragazzi della mia età che si facevano dare centomila lire per mettere una bomba e disturbare la lezione di inglese. Io comunque non li frequentavo. Andavo in un’altra scuola, una scuola nei pressi di corso Gelone, e di pomeriggio non ciondolavo per i vicoli della Giudecca col motorino: prendevo la Vespa 50 PK XL blu notte e andavo a suonare la chitarra nel garage di qualcuno, oppure a giocare a pallacanestro alla cittadella dello sport. A volte, per tornare a casa, da uno di quei vicoli ci dovevo passare per forza, e magari finiva che mi inseguivano e mi fottevano a legnate, non era una cosa piacevole, era gente selvaggia, però quando sentivo alla televisione mafia o mafiosi non pensavo ai miei coetanei di Ortigia: quelli per me erano dei poveracci e basta, al massimo dello spregio li chiamavamo malacarne. Non sono sicuro che sbagliassi tanto a considerarli così, perché per esempio, qualche anno più tardi, mi ero organizzato con gli amici per andare a mare a Vendìcari. Vendìcari viene lontano, specie coi motorini, se ci vai è per restarci tutto il giorno, quindi ci eravamo dati appuntamento davanti a un panificio sempre aperto, 24 ore su 24, per farci imbottire i panini, prendere l’acqua e le cose che uno si porta quando vuole resistere a mare per un tempo lungo.

Devo ammettere che ero un tipo particolarmente imbambolato, però lo stesso rimango convinto che non sia facilissimo capire o accorgersi di come vive certa gente, tipo i mafiosi o i delinquenti in generale, e che per questa gente, che vive in quel modo tutto suo, sia a sua volta molto difficile capire o accorgersi di come viviamo noi. Per esempio, una volta, nella scuolaccia dove insegnavo, mentre parlavamo di non mi ricordo più che cosa, una ragazzina di tredici o quattordici anni mi ha chiesto: «Ma lei che lavoro fa?». E a me è parso strano, visto che in quel momento stavo lavorando, perciò le ho risposto: «Questo». Lei questa risposta però non la capiva, e mi continuava a chiedere: «Quale?». E io: «Questo qua, insegnare, venire a scuola, stare in classe con te e i tuoi compagni». Niente, mi guardava, poi tornava alla carica, ogni volta sempre più smarrita, fino a quando non è sbottata in un: «Ma chi è travagghiu chistu?». Cioè, per lei, quello non era un lavoro, al limite era un passatempo, una cosa che facevo così, perché mi piaceva farla (l’idea di averle trasmesso quella sensazione un po’ mi lusinga ancora), quindi voleva sapere qual era il mio lavoro vero, quello che mi faceva guadagnare i soldi da portare a casa per sfamare i miei figli e comprargli il Galaxy Grand Neo. «Tuo padre che lavoro fa?», le ho chiesto allora (una domanda che ho sempre evitato perché mi pare odiosa, ma che in quella situazione era necessaria al proseguire della discussione). E lei mi ha detto: «Cose, situazioni». Che situazioni, ho pensato io, che cose? E devo aver fatto un’espressione perplessa, perché lei ha sentito il bisogno di ampliare: «Nesci ‘a matina e tonna ‘a sira». E più non dimandare, insomma, nel senso che lei mica glielo chiedeva o glielo poteva chiedere a suo padre: che fai, scusa, ti metti a guardare dentro la bocca del caval donato? Erano i primi tempi in quella scuola, e c’era un mio amico molto impegnato nel sociale, e più avvezzo di me a certe frequentazioni, che mi chiamava Mariotto Ingenuotto e poi mi diceva sempre but our princess is in another castle, nel senso di: non hai capito un cazzo, non è questo il problema. Infatti mi ricordo che, durante una delle prime settimane, uno di quei ragazzi che tutti (preside, colleghi, assistenti sociali, educatori, psicologi) mi descrivevano come uno dei più problematici della scuola (aveva il padre, il fratello e mezza famiglia in carcere, e lui stesso aveva delle condanne che, essendo ancora minorenne, stava scontando in una comunità-famiglia) la mattina mi accoglieva chiedendomi: «Professore com’è, tuttapposto?» Ecco, io un poco me ne meravigliavo, pensavo: ma alla fine non è che sia così tremendo questo ragazzo, si informa anche di come sto, è gentile, com’è che sono sempre così esagerati i colleghi di questa scuola. Perciò gli rispondevo sorridendo: «Sì grazie, tuttapposto». Lui a quel punto mi diceva: «Megghiu accussì, no?». E io non sapevo mai bene che dire, perché mi sembrava una frase pleonastica: certo che era meglio così, che senso aveva aggiungere quel «meglio così, no?». Perciò dicevo: «Sì, sì», e poi lui magari prendeva un corridoio e io un altro. Un giorno, però, mi sono un po’ incaponito e gli ho chiesto: «Ma in che senso megghiu accussì?». Lui mi ha guardato come se ero cretino, poi ha cambiato espressione, gli occhi e la fronte gli si sono fatti minacciosi, la voce invece gli è rimasta bassa e ferma e mi ha detto: «Nunn’è megghiu accussì, professore, quannu unu po’ diri ca è tuttapposto?». In pratica, quel saluto era una forma di intimidazione e stava a significare: «Occhio, cerca di fare in modo di poter sempre rispondere a questo mio saluto che va tutto bene, non mi disturbare, non metterti contro di me, perché se lo fai dopo ti assicuro che non potrai più rispondere che è tuttapposto». Io, per capire tutto questo ragionamento ellittico e fondato sul non detto, ci avevo messo due mesi. Allora ho pensato: chissà quanto ci mettono quelli che non vivono in Sicilia, o non hanno mai insegnato in una scuola come quella, a interpretare il saluto di uno che saluta diversamente, a capire che saluta diversamente perché pensa diversamente, a rendersi conto che pensa diversamente perché ha vissuto diversamente. È così immediata come deduzione? Quanta gente sa che il mafioso è uno che fa il mafioso per aprirsi un panificio e poi lavorarci dentro 24 ore al giorno senza manco andare mai a dormire? In quanti sanno che per una ragazzina che va a scuola il padre è un lavoratore perché esce la mattina e torna la sera e va a fare cose e risolvere situazioni, mentre invece considera il suo insegnante di italiano una cosa a metà tra un fannullone e un disoccupato? Mi sa che sono in tanti a saperlo, perché effettivamente giudico che siano in tanti quelli più svegli di me, però penso che anche se sono rimasti in pochi a non saperlo, magari è il caso che anche questi pochi lo sappiano, e che a quelli che lo sanno già invece si ricordi di come, stringi stringi, il problema stia tutto in che cosa uno considera normale e che cosa no. Allora, forse, l’autobiografia domestica del figlio di un mafioso non è inutile, e può servire anche che lo intervistino in tv, perché così ci accorgiamo che il figlio di un mafioso non si rende bene conto di che cosa significa che suo padre è mafioso: esce la mattina e torna la sera, mi compra le cose che mi servono, d’estate andiamo a fare il bagno a mare, da bambino mi teneva a cavalluccio sulle spalle. Sentirlo parlare ci può fare ricordare che eccezioni potentissime e abbacinanti come quella di Giuseppe Impastato, figlio di un mafioso che rinnegò il padre e morì ammazzato dalla mafia, sono appunto eccezioni, e che in genere non è affatto così, perché un figlio, un bambino, un adolescente considerano normale quello che vedono succedere in famiglia e strano quello che vedono succedere fuori: «Scusi professore, ma lei che lavoro fa?».                  

 Mario Fillioley