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AL MANIACE I DUE FAMOSI ARIETI DI BRONZO, POI SPARITI, DISPERSI, TRAFUGATI

Fin dai più antichi tempi di Siracusa l’estremo sperone roccioso concludente sul mare Ortigia fu sede di fortificazioni, sfruttanti l’eccellenza strategica dell’emergenza rocciosa, separata dal resto dell’isola da una profonda depressione naturale.  Fu in questa sede che il generale bizantino Giorgio Maniace costruì alcune opere fortificate, delle quali nulla ci è dato di sapere, se non fosse per la tradizione che operò il trasferimento del suo nome al più recente castello federiciano. Fu questo il più antico, sebbene non il più arcaico, fra i castelli svevi di Sicilia e fra tutti, dopo quello di Augusta, certamente il più bello ed equilibrato nello studiatissimo rapporto compositivo che ne sposò perfettamente l’esigenza militare con la funzionalità della pianta e degli ambienti, in tutto degni di ospitare la dignità imperiale di Federico. Preceduto da una serie di opere avanzate, delle quali non ci è giunta traccia, si erge su di un impianto perfettamente quadrato (mm 41 x 41) scaturente da un quadrato di base, sostituito dall’impluvium, che ne diviene il costituente semplice, l’atomo concettuale. Il piano terreno era costituito da un unico ambiente, che se non raggiunge la studiatezza di quello augustano, doveva essere di grande suggestione.

L’ambiente era scandito da regolari campate, concluse dalle caratteristiche volte a crociera, poggianti su di una foresta di sedici colonne centrali, più quattro semicolonne ai rispettivi lati e le quattro colonne d’angolo.

L’effetto derivante da questo ambiente, si è già detto, doveva essere straordinariamente suggestivo, nella fusione sia dell’elemento borgognone (le volte, le campate) sia del riferimento emergente da quello zampilli o di colonne che ci sembra una soluzione ancora legata al gusto islamico. Ricavati entro lo spessore murario delle pareti nord e sud erano due grandi camini, dei quali nulla ci rimane, tranne che l’incasso di uno solo, ancora perfettamente leggibile.  Ai quattro angoli della costruzione quattro torri cilindriche ne risolvono gli spigoli, in un perfetto inserto dall’accuratissima opera muraria. A proposito della finitezza dell’ opera muraria non si può non ripetere quanto l’Agnello ha provato, vale a dire che le stesse maestranze già impegnate nell’erezione della basilica del Murgo furono trasferite alle fabbriche del castello siracusano; maestranze sapienti, quindi, educate nei migliori cantieri d’Europa, veri maestri artigiani di tutta la nuova architettura dugentesca del vecchio continente.  Alla sala terrena doveva in origine soprastare un’altra elevazione, della quale però non ci è pervenuta traccia, sia per le distruzioni alle quali il castello andò incontro, sia per il livellamento dei muri di cinta, che avrebbero dovuto mostrarci i segni dell’inserzione delle semicolonne, dei camini e delle volte del secondo piano.  Tuttavia forti considerazioni analogiche possono sufficientemente confortarci circa l’ipotesi dell’esistenza di una seconda elevazione che è da considerarsi come una caratteristica sempre ripetuta in tutti gli altri castelli svevi (Ursino, del Monte, Prato ecc.).  Nel corpo delle torri erano ricavate delle scalette a chiocciola, conducenti tanto alla seconda elevazione quanto al camminamento di ronda.  All’esterno, la parte più importante [del castello] è costituita dalla fiancata nord-ovest, su cui si apre il superbo portale, appesantito dallo stemma aragonese sovrapposto nel 1614 per iniziativa del castellano Giovanni de Rocca Maldonato (S. Bottari).   Ai due lati di questo portale, su due grandi mensole di pietra erano i due famosi arieti di bronzo, d’età ellenistica, probabilmente allora, come osserva l’Agnello, restituiti dal ricchissimo sottosuolo di Siracusa. L’inserzione di questi due elementi denota un sempre presente gusto “classico” e ci pare un elemento in più per comprovare l’esistenza di un gusto locale di tradizione araba. 

La nostra breve argomentazione è che in Italia (Prato ed Andria) questo omaggio al gusto classico è realizzato con l’inserzione organica nella costruzione dei doviziosi portali sormontati dal caratteristico timpano classico, e creanti, insieme al sapiente movimento delle masse delle torri, una zona di movimento ascrivente i castelli in discussione a una sensibilità del tutto diversa da quella “siciliana” presente nei castelli di Augusta, Siracusa e Catania, dove i portali non aggettano minimamente dalla linea dei muri, lasciandone inalterata la cristallina e lineare presenza. 

Data la presenza anche in Sicilia di quella vena di classicità (portali) che però si risolve (castel Maniace) fuori dalla costruzione è chiaro che in Sicilia bisogna fare riferimento a una diversa sensibilità, che è quanto dire a una diversa scuola, che presiedette alla intavolazione volumetrica delle costruzioni; e tanto precisa era quella sensibilità che non poteva assorbire organicamente l’inserto classico, estraniandolo.

Ora questa diversa cultura, date le uguali matrici dell’arte sveva, non poté essere che di origine araba.  I due splendidi arieti bronzei secondo la tradizione furono portati da Costantinopoli in Siracusa, dall’ammiraglio Giorgio Maniace e posti ad ornamento della fortezza da lui costruita in quella città. (R. La Duca). E’ necessario rilevare che il passo sopra riportato, relativo a uno studio del La Duca sul castello a mare di Palermo, ci pare, quanto meno, proporre una tesi improbabile.

In primo luogo Maniace venne, poco dopo il 1030, in Sicilia con una spedizione militare, segnante l’ultimo atto degli sforzi bizantini di riconquista della Sicilia.

La spedizione, di grandi proporzioni e di ancor più grandi ambizioni, in effetti conquistò grande parte della Sicilia orientale e Siracusa, le cui fortezze furono ristorate (è quindi in questo contesto che va inquadrato il “primo” castello Maniace), si pensò potesse costituire una valida testa di ponte per una ulteriore penetrazione bizantina. Al seguito di Maniace erano duecento mercenari normanni, alcuni dei quali, più tardi con il conte Ruggero, inizieranno per proprio conto la conquista dell’isola.

 L’impresa di Maniace fu però effimera e la corte di Costantinopoli, sempre guardinga e gelosa dei propri generali vittoriosi, lo richiamò in patria, considerando anche l’impossibilità di dominare il mare in concorrenza con arabi, pisani e genovesi, si da garantirsi la riconquista dell’isola.

 La nostra osservazione è dunque evidente, dati i fatti di cui sopra. Maniace guidava una spedizione militare il cui esito era incerto; è improbabile che, insieme ai soldati, si sia tirato dietro da Costantinopoli due arieti di bronzo, che potessero servire da ornamento a una fortezza che ancora non aveva costruito. E se costruita, com’è probabile, la fortezza avesse proprio voluto ornarla con qualcosa, Siracusa era ancora ricca di reperti classici fra i quali c’era da scegliere e, per ultimo, ci pare assurdo che nel pieno di un’avventura militare i cui esiti mai sembrarono definitivi e duraturi, nemmeno nel suo periodo migliore, si potesse pensare a “ornare” una fortezza quanto, semmai, a difenderla; ed ancora: Maniace fu richiamato a Costantinopoli, non fuggì in seguito a un disastro militare, avrebbe quindi avuto tutto il tempo per tirarsi dietro i due arieti.

Ci pare quindi che la prima parte di questa tradizione sia del tutto eliminabile, mentre sarà utile, sempre seguendo il La Duca, ricostruire le vicende dei magnifici pezzi” dal 1448 fino ai nostri giorni. Gli arieti furono nel 1448 regalati da Alfonso il Magnanimo ad Antonio Ventimiglia… e vennero da questi trasportati in Castelbuono e posti ad ornamento della tomba paterna. Dopo la confisca dei beni dei Ventimiglia, i due arieti passarono di proprietà alla corona e furono dapprima collocati nel palazzo Steri e successivamente nel Castello a mare.

Qui rimasero fino al 1556, anno in cui i viceré trasferirono la loro residenza nel palazzo reale, dove trasportarono anche queste due opere d’arte.

Nel 1735 i due arieti vennero portati nella reggia di Napoli, ma furono ben presto restituiti a Palermo in seguito alle lamentele dei cittadini… durante i moti del 1820 il Palazzo reale venne saccheggiato e gli arieti buttati dalle finestre. Uno di essi andò perduto, mentre l’altro poté essere restaurato ed oggi trovasi custodito nel Museo Nazionale di Palermo.

Una delle parti di maggior rilievo del castello, oltre al magnifico e intatto portale, rimane la grande finestra del lato sud-ovest che per quanto bruttata e sconciata mostra ancora l’eleganza delle sue linee e la purezza della propria impostazione.

Elio Tocco