Politica

PALAMARA RACCONTA A SALLUSTI TRACCHEGGI, VIZI E CORRUZIONI DEL “SISTEMA MAGISTRATURA”

Riportiamo uno stralcio dell’intervista/libro di Alessandro Sallusti a Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm, oggi espulso dalla magistratura. Palamara vuota il sacco, fa nomi e cognomi e denuncia l’esistenza del “Sistema” che gverna la magistratura- Parla insomma anche se ancora ha tanto da dire, ma si riserva.  Ecco il capitolo intitolato “Il vivaio. Come  educare i magistrati da piccoli”

Quello di magistrato è un mestiere che si tramanda di padre in figlio?

A nessuno può e deve essere preclusa la possibilità di diventarlo. Io sono rimasto orfano a 19 anni, e la morte di mio padre rappresentò uno shock violento nella mia vita. Ero visceralmente legato a lui: per me rappresentava una montagna che mi preservava da qualsiasi folata di vento, ma soprattutto un esempio da imitare per la passione che nutriva per il lavoro del magistrato. Il giorno dei suoi funerali, l’allora ministro dell’Interno

Amintore Fanfani mi chiama da parte e mi dice che l’amministrazione è pronta ad accogliermi nella Polizia. La tanto vituperata Prima Repubblica era anche questo. Lo ringrazio per il sostegno ma declino l’offerta, perché nella mia testa è scattata una molla: anch’io voglio entrare in magistratura. Per un mese intero però rimango a letto e guardo il soffitto. Una mattina di

marzo decido che devo reagire. In tre anni, dal marzo del 1988 al luglio del 1991, mi tolgo tutti e ventuno gli esami con la media del 30. Nel novembre del 1991 mi laureo quindi a pieni voti cum laude, a 22 anni, alla Sapienza di Roma, e nel frattempo tutte le amicizie che contavano si sono improvvisamente dileguate. Mi ritrovo solo, nel 1996 supero il concorso e il 15 dicembre 1997 inizio la mia avventura in magistratura. A differenza di tanti miei colleghi che oggi si battono il petto, non chiedo una raccomandazione al politico di turno per svernare a Roma in qualche commissione parlamentare, ma scelgo come prima destinazione la procura di Reggio Calabria, allora classificata come sede disagiata. Non avevo particolari idee politiche. Mio padre era di area socialista, fondamentale fu il suo ruolo durante il governo Craxi sulla nota vicenda di Sigonella. Prima dell’università avevo fatto tutti i cicli di studi – dalle materne alla maturità – alla scuola cattolica Cristo Re di Roma, e c’è mancato poco che mi facessi

prete. Fratel Roberto, la mia guida spirituale, mi aveva prescelto come chierichetto della scuola. Quella era stata la mia educazione, e quello era il mio orientamento culturale: un cattolico moderato i cui primi voti

oscillavano tra i partiti di centro.

Ma quelli sono anche gli anni di Tangentopoli e del crollo proprio di quel centro politico.

L’azione eroica e spregiudicata di Di Pietro entusiasma la mia generazione di aspiranti magistrati, ci carica di forti idealità, oltre a cambiare per sempre le gerarchie, il ruolo e l’immagine della magistratura.

Siamo animati dal sacro fuoco di affermare che la legge è uguale per tutti, ma allo stesso tempo percepisco che da quel momento in poi i magistrati non saranno più grigi e anonimi burocrati, quanto piuttosto star evocate e invocate dal popolo, famosi come un attore o un calciatore, potenti come e più di un politico.

È un treno da non perdere…

Infatti quelli della mia generazione ci salgono in corsa, siamo giovani e ambiziosi, ci sentiamo investiti di una missione salvifica. Chi immaginava di fare il giudice si converte alla carriera dell’inquirente, il pm senza

macchia che caccia i cattivi, che è ricercato dai giornalisti, che prima o poi finirà sui giornali e in tv.

Più che una missione assomiglia a una ubriacatura.

E in effetti lo è. Ma io più che dalle manette sono affascinato da altri aspetti di quella vicenda. Studio e ristudio i meccanismi di Tangentopoli, e non mi riferisco al merito delle inchieste. Mi intriga capire, per esempio, lo scontro di potere tra le procure di Milano e Roma per la gestione dei vari filoni, vedo il proliferare di iniziative analoghe in tutta Italia e mi chiedo: puro spirito di emulazione o c’è un disegno? E se c’è, chi tira i fili? Insomma, metto insieme i tasselli.

Quali tasselli?

Per esempio non mi torna come il Parlamento – su spinta della sinistra risparmiata dalle inchieste – possa aver approvato la legge suicida che toglie l’immunità ai parlamentari, aprendo di fatto lo sconfinamento della magistratura nel terreno della politica. Rimango sorpreso dal fatto che la strutturale dipendenza della politica dal finanziamento privato venga spacciata per banale e criminale corruzione di alcuni partiti, e che per la prima volta nel 1994 un presidente del Consiglio in carica, Silvio

Berlusconi, venga raggiunto da un invito a comparire, come se dovesse essere respinto insieme alla novità che rappresentava rispetto alla politica.

So che nulla accade per caso, c’è sempre un meccanismo, un sistema invisibile che si muove all’unisono. E io cerco la porta d’ingresso.

La trova?

Non subito, ovviamente. Ma noto una cosa: la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra

della magistratura. Quando arrivo alla mia prima sede, Reggio Calabria, rimango subito coinvolto in una rissa che diventa guerra tra il nuovo

procuratore, Antonio Catanese, un onesto magistrato di Messina che nella vita aveva fatto di tutto meno che il pubblico ministero, e il suo vice

Salvatore Boemi, uno che si era intestato grandi inchieste e che aspirava a diventare il capo. Inesperto, per poco ci lascio le penne perché mi schiero contro il vertice. Capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel

«Sistema». Il clima a Reggio Calabria in quegli anni è particolarmente incandescente, perché i vertici della magistratura reggina sono stati investiti dal ciclone delle dichiarazioni rese dal notaio Marrapodi, che in un

drammatico confronto con il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro accuserà tra gli altri l’allora procuratore Giuliano Gaeta di aver protetto le cosche mafiose. «Siamo arrivati insieme in una realtà molto difficile» mi

dice il nuovo procuratore Antonio Catanese quando ci incontriamo per la prima volta.

E cosa succede, una volta nel «Sistema»?

All’inizio nulla, mi guardo intorno, partecipo a riunioni di corrente in cui si parla tanto ma si conclude poco, un classico delle correnti di sinistra della magistratura. Però capisco l’importanza delle relazioni: quando nel

weekend rientro a Roma, ne coltivo il più possibile, soprattutto tra i colleghi della mia generazione, e intuisco che un giorno potrebbero tornarmi utile e così sarà. Poco dopo ho la prima, piccola conferma che il «Sistema» funziona.

IL SISTEMA