Politica

IL FASCINO, LE STORIE E LE LEGGENDE DEL VECCHIO MACELLO DEL 1884

Uno degli angoli più ricchi di memorie storiche del nostro territorio è indubbiamente quello di cui oggi esistono purtroppo solo le macerie: il vecchio macello tra Via Elorina e il piazzale Arezzo della Targia, dove oggi è il mercato ittico. Esso, tra l’altro ha un magnifico portale che ancora si conserva abbastanza bene e che occorrerebbe subito recuperare per non fare deteriorare anche quello o far venire a qual-cuno la tentazione di smontarlo e portarselo via. Infatti all’arcosolio, alla chiave di volta, si trova ancora, ben scolpito, un bucranio di pregevole fattura artistica. Il resto della costruzione è… un macello! Tutto semidistrutto, un mare di immondizie! Eppure sotto quel disastro di macerie, provocato da diversi incendi oltre che dall’abbandono assoluto della costruzione, vi è tanta memoria storica delle tradizioni e dei costumi dei nostri padri! Il macello era un luogo vivo, animato, frequentato quotidianamente da numerose persone impegnate in vario moto all’alimentazione umana; oltretutto il nostro aveva a fianco anche la fabbrica del ghiaccio, con le celle per la maturazione della frutta e persino, ancor prima , una fabbrica per l’estrazione dell’essenza di limone per la produzione di profumi. La fabbrica di questa essenza, che veniva inviata fuori per la raffinazione e per la produzione dei profumi, era di proprietà della famiglia di Pippo Giudice, padre di una numerosa schiera di figli che si sono bene inseriti in altre attività nell’ambiente siracusano, come Pasqualino, lo chef più noto. Purtroppo la produzione di quell’essenza venne ad essere interrotta perchè non trovò i dovuti appoggi negli ambienti responsabili, come avviene ancora oggi per tante altre iniziative di indubbia valenza. Al posto della fabbrica per l’estrazione dell’essenza del limone venne a crearsi la fabbrica del ghiaccio, che allora era di grande importanza, visto che quasi non esisteva il frigorifero e tutti si provvedevano di balate per la ghiacciaia domestica: Passava per le vie della città il muto che con il suo carramattulu portava i blocchi di ghiaccio a domi-cilio dei clienti. Molto spesso sostava nel famoso quartiere della Jureca, a piazza San Filippo, giacchè quella era la zona più animata del commercio alimentare della città. Come si macellava allora? Non certo con la pistola che si usa attualmente, pistola che del resto non spara un proiettile bensì lancia una specie di chiodo che colpisce la fronte dell’animale che muore istantaneamente. Allora, invece, bisognava colpire l’animale con un lungo affilatissimo coltello: ’u pungituri. Questo serviva esclusivamente per questa delicata e non facile operazione, che però sapevano fare tutti i veri macellai. Se infatti non veniva colpito al punto giusto, che era il cervelletto, alla nuca, l’animale si rendeva molto pericoloso perchè scalciava e poteva scornare nel dibattersi prima di morire. Quando stramazzava a terra, veniva scuoiata con un altro coltello e squartato, Si tagliava l’animale in quarti che venivano issati su grossi ganci scorrevoli: questi sono ancora rimasti sul posto. Un’operazione molto delicata veniva allora eseguita dal dottore veterinario che aveva il suo studio in loco: egli riceveva il fegato e i polmoni dell’animale scannato e ne analizzava le parti per riconoscere se l’animale fosse effettivamente commestibile. Quando riconosceva che l’animale avesse qualche malattia da renderlo incommestibile, lo sequestrava e ordinava di bruciarlo immediatamente. Mentre il macellaio macellava, in un altro settore vicino il fuoco era sempre acceso per far bollire in grosse caldaie l’acqua che serviva per lavare la trippa e il centopelle, che venivano rese bianche dalla raschiatura che si effettuava sopra una balatadi pietra. Ogni macellaio provvedeva con il suo aiutante a macellare il proprio animale. Interessante la tecnica per macellare un maiale: si teneva saldamente legato con le zampe anteriori e posteriori, sopra la stessa balata che si usava per raschiare la trippa, chinato da un fianco. Così veniva sgozzato. Si badava acchè sotto la gola venisse disposto un secchio ben pulito per la raccolta del sangue, che, insaccato in seguito in laboratorio nel budello, veniva trasformato nel caratteristico sangunazzu che, i Siracusani usavano gustare molto ancora caldo, sciutu d’’a pignata fumanti. Una cerimonia singolare era quella che, quando si macellava, si tollerasse che i picciriddi e i picciotti si accostassero a gustare le frattaglie arrostite a bagnasale, rubacchiate un po’ qua un po’ là a tutti i macellai. Si usava portarle al fuoco delle caldaie e si arrostivano alla brace: cuore, ’u zirenu, che era il budello degli animali più piccoli, con dentro ancora il latte…

Particolar sapore avevano poi, per coloro che possedevano uno stomaco robusto, i testicoli e il pene del bue. Questi organi erano prelibatezze che l’allora dott. Patti- uomo severo, che ci te-neva alla salute dei cittadini, ma anche onesto e giusto – tollerava per il buon esito del lavoro giornaliero. Si usava inciderli con il coltello per favorirne la cottura. Una cura che si usava prescrivere a quei tempi ai ragazzi e alle ragazze affetti da anemia mediterranea, era quella di andare al macello a bere il sangue di bue nello stesso istante in cui l’animale veniva sgozzato: c’era pronto il bicchiere che ciascun paziente autorizzato e riconosciuto dal veterinario del mattatoio, portava per proprio conto e gli veniva riempito gratuitamente per berlo sul posto. La pelle scuoiata veniva avvolta in se stessa e veniva portata in un magazzino fuori dal macello dove esisteva una cooperativa degli stessi macellai; esse venivano salate in attesa che mensilmente fossero consegnate a chi abitualmente veniva dal continente a comperarle per lavorarle e farne delle pelli o suole per scarpe, borse. Ogni macellaio aveva i suoi aiutanti che badavano anche alla conservazione degli attrezzi, anche se non avveniva quasi mai che uno dei picciotti si appropriasse delle cose altrui; del resto erano famiglie intere che facevano lo stesso mestiere: i Giudice, gli Spada, i Peluso, i Messina. I macellai di oggi in realtà erano i collaboratori dei macellai di una volta, perchè quelli mandavano i loro figli a scuola a diplomarsi e laurearsi,

non volendo che essi facessero il mestiere che avevano fatto loro, giacchè quel mestiere allora comportava tanta fatica, anche se dava parecchio guadagno. Infatti dovevano alzarsi presto, all’alba, giacchè dovevano preparare, prima di venderla al dettaglio, la carne, che, subito dopo la guerra veniva quasi sempre venduta a violino cioè a credenza: -Scrivissi, signura Marietta, ca a’ fini ’i simana ’a vegnu a pajari!Così si usava allora. E veniva con la massima puntualità, per cui vendere o comperare a credenza era l’abitudine di tutti, anche di coloro che potevano pagare in contanti e subito. Ultima nota: la carne si mangiava una volta la settimana e non come oggi tutti i giorni; la fettina era una cosa abituale se non per pochi: per la gente comune, per il popolino, c’era quarumi e cosi ’i dintra! Tuttavia stavano sicuramente, in salute meglio di noi, perchè ciò che mangiavano era roba genuina , senza conservanti o sofisticanti, si sconoscevano le allergie alimentari. Non era, tanto per dirla con l’ultima battuta, il… panettone avvelenato o la mucca pazza!

Arturo Messina