Politica

QUANDO IL BARONE PASSARO’ CHIUSE IL MONASTERO PER COLPA DELLA FIGLIA MONACA

Come fu che don Tanino Passaro’,  barone di Casteldaccia cacciò le povere monache dal monastero. Ma  chiuriri nu  munasteru pi na monaca,  passi na vera ingiustizia!

Il monastero si ergeva tetro e imponente a sovrastare con la sua solennità i tetti delle case che lo circondavano. Era badiale, immenso e questa grandiosità incuteva timore a quanti cristiani si avvicinavano a chiedere riparo o semplicemente a soddisfare quel bisogno primario della fame. Don Tanino Passaro’, baruneddu di Casteldaccia, di quelle terre ne andava fiero e guardava il monastero con aria di superiorità. Era stato lui a volere quella costruzione, e un motivo l’aveva avuto. Dalle  trifore della sua dimora, ogni mattina già all’alba, vedeva frotte di persone in fila per la questua.  – Puvurazzi, si diceva, cristiani senza sorti.- E lui di sorte ne aveva avuta, e tanta. Era proprietario di feudi che si perdevano alla vista  tra contrade e plaghe e i suoi campieri e bovari, ogni giorno gli elencavano fatti e misfatti degli uomini, così lui decideva il destino di ognuno. Spietato com’era, non ci pensava due volte a cacciare qualche vaccaro che aveva tradito, in qualche modo, la sua fiducia. Tre figghi aveva avuto. Melu, stessa tempra del padre, fumantino, forte comu un  liuni,  scaltro comu una volpe e u cori comu a faccia, virdi, picchi ammiria so manciava vivu. Ginuzzu, u mezzanu, cristianu travagghiaturi,  iddu. Jornu e notti pinsava a  puttari u mangiari a casa. Poi c’era Giustina, bella e ribelle come la madre. Occhi di cerbiatta, che a solo guardarli, vinevano pinseri sfirriati. Libertina e sfacciata era,  e pi sti motivi don Tanino Passaro’, com’era vero che era baruneddu di Casteldaccia e come soleva usare a quei tempi, pensò gloriosamente  di  rinchiuderla nel  monastero e per lei, ogni anno,  destinava 1200 denari, picchi’ non doveva dirsi che a sua figlia non aveva dato dote da barunissa. E così Giustina diventò suor Giustina e a suor Giustina u sangu ci ribolliva e si sa,  l’acceddu chiusu na gaggia, canta p’amuri o pi raggia e Giustina, suora  per costrizione era!

La vita monacale di Giustina non poteva definirsi vita propriamente da religiosa. A lei piacevano gli inciuci, le ciancerie, i chiacchiericci e, diventata nel frattempo badessa per gli sghei  che versava il padre, aveva licenza di confessare e scomunicare. Non le piaceva il mondo monastico, ma non aveva scelta, così agiva come più le piaceva e, in tal modo facendo, sapeva tutto di tutti; e suor Milina, na piuzza  monachedda, sempre con il rosario in mano a recitare novene e giaculatorie, guardava stupita e con stupore,  sempre a farsi il segno della croce per le corbellerie di suor Giustina, che di certo tanto ortodosse non dovevano essere. Suor Giustina si deliziava intrattenere i viandanti, scambiare notizie di viaggi e in cambio offriva loro i frutti dei raccolti che il  giardino del monastero regalava copiosamente. C’era un via vai continuo di mercanti e cavalieri e a tutti suor Giustina dava renzia. Ma ‘n jiornu, comu fu e comu nun fu, suor Giustina si trovò con un figlio in grembo. Scandalo ci fu. Don Tanino Passaro’, con nequizia spaventosa, arraggiatu, u sangu ca ci  acchianava all’occhi,  nun capiu chiu’ nenti. L’onore suo era stato profanato. Lui,  u padruni, ora era deriso, schernito, beffeggiato. Idda, na monaca, sa figghia, la causa del suo dileggiamento. Che non fosse stato mai! Con ordine lapidario, itto’ tutti fora ro monasteru, u chiusi con catini e catinazzi e suor Giustina scompariu ra circolazione. Voci mormoravano che don Tanino Passaro’ l’aveva data in sposa a un suo compare lontano, altri che l’aveva chiusa in una stanza gettando la chiave. E u caruseddu? Nun si seppi chiu nenti. Rimase solo suor Milina, fuori dal monastero, ad aspettare, sola e  poverina con le sue giaculatorie e, ad ogni passante diceva con aria di mestizia: Mah, pi na monaca si chiusi nu conventu, come a dire che, alla fine ci va sempre di mezzo chi colpa non ne ha.  Storia, leggenda, verità? Vallo a sapere dove finisce il vero e subentra la finzione. Una cosa è certa, gli antichi erano soliti affermare che i proverbi costituiscono un tesoro di esperienza di vita vissuta e non sbagliano mai, una sorta di saggezza popolare tramandata nei secoli, tant’è vero che un antico adagio recita: “U pruverbiu nu sbagghia mai”! Sarà così?

Graziella Fortuna