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I MINNI RI SANT’AGATA / COME IL MALVAGIO QUINZIANO TAGLIO’ DI NETTO I DUE SENI ALLA BELLA AITINA CHE LO RIFIUTAVA

Che domenica è se non si finisce il pranzo con una guantiera di dolci? Cannoli, cassatelle, baba’, frutta marturana e poi…i minni, i minni ri Sant’Agata. Tondi e rotondetti, ricoperti di glassa di zucchero e con la ciliegina rossa al centro, in talune tavole non possono mancare, ma dietro a cotanta bonta’ e squisitezza, dietro a na cosa ruci ruci, si cela una storia che raccapriccia solo a pensarla, una storia intrisa di fede, ma anche di tanta profanità. Aitina era una picciuttedda di bona creanza, pelle eburnea e vellutata, linea slanciata, capelli sempre  raccolti racchiusi in una delicata rete argentea, con due boccoli castani con lievi riflessi dorati che le scendevano ai lati ad incorniciare il volto e due occhi sinceri come quelli di una bambina che vedono per la prima volta il cielo stellato. Dalla camicetta, prorompenti, spuntavano come stelle lucenti nel cielo infinito, due seni alti e turgidi che facevano trapelare la bella donna che sarebbe diventata. Buona qual era, obbediente e devota a Gesù e a tutti i santi, non c’era giorno che passava senza recitare le giuculatorie insieme alla madre e a donna Mena, una vicina che, a dirla tutta, tra un rosario e  na novena, trovava il tempo di ciuciuliari e sapiri  i pila e pilisceddi ri tutti. Ma  voleva un gran bene ad Aitina, tanto da trattarla come la  figlia che non aveva mai avuto. Le aveva insegnato lo sfilato siciliano  e la picciuttedda, con mani precise e meticolose, aveva imparato velocemente. E donna Mena, come si fa con una figlia, la elogiava e se ne compiaceva, ma la rimproverava anche quando si faceva venire i futtigghia. In cucina poi, non c’era giorno che le  bianche mani di Aitina impastavano panuzzi e cucciddati, ma soprattutto i pagnutteddi piccoli, rotondi, soffici e morbidi che poi distribuiva ai  poveri del paese.  Aitina cresceva come un bocciolo in mezzo a un giardino fiorito e assai era la sua  fede che a quindici anni decise che si sarebbe data ai voti, cosicché il vescovo, raccogliendo la sua richiesta, durante la velatio, le impose il velo rosso, quello destinato per le vergini consacrate. Ma si sa, il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi…! Aitina diventava sempre più bella e sempre più donna e quei seni, proprio non poteva nasconderli. Durante la solita camminata verso la chiesa, il  suo sguardo incrociò Quinziano, proconsole di Catania che se ne incapriccio’. Nun sa putiu  luvari da testa. Era come un tarlo ca ci camuliava  a testa e u cuore e in un vespero freddoso, con il vento che soffiava e tagliava la pelle, tanto era gelido, si dichiarò. Ma Aitina nisba, occhi vasci e spaddi calati, affrettava il passo verso casa, dimora sicura dove l’aspettavano coloro che incondizionatamente amava e l’amavano. Con voce tremula e scantata come non mai, tutto di un fiato racconto’ quanto successo alla madre che, poverina, cominciò a disperarsi perché sapeva quanto vendicativo, cattivo  e malvagio  fosse Quinziano.  E così fu. Il proconsole, uomo rozzo, accecato dal potere che possedeva,  fumantino,  i chiddi ca abbaiano tanto pi abbaiari, non sopportava nessun diniego. Per lui grande oltraggio fu. Un uomo di tanta portata, abituato ad avere quello che voleva, a prendere la roba degli altri senza tanti perché, non poteva essere respinto da un’angelica verginella e ordinò ai suoi bravi di rapirla e torturarla, se non si fosse abbassata al suo volere e al suo compiacere. Come era vero che si chiamasse  Quinziano. A lui tutti dovevano obbedienza.

Aitina però non  cedette a nessuna  blandizia, mai s’abbasso’ alle sue lusinghe…Mai! Sempre fedele fu alla sua volontà e alla volontà del Signore. Così Quinziano, con occhi di raggia e con il sangue alla testa, la espose al pubblico ludibrio, tagliandole con un movimento nettu e cuttu i due seni.

Neanche a dirlo, la madre fu distrutta dal dolore, di un dolore atroce che sale dalla pancia e prende  il petto e lo attanaglia e poi  annebbia la mente e tutti i sensi. E Mena, anche lei, pianse quella ragazza, quella creatura che mai aveva prodotto male in vita sua e con rabbia e infinito dolore continuò ad impastare i suoi pani, i panuzzi ri Aitina, i pagnutteddi morbidi e soffici continuando  a distribuirli ai poveri del paese, come aveva fatto la povera Aitina.

Leggenda, realtà? Chi può dirlo? Chi lo sa dove sta  la linea di demarcazione tra l’invenzione popolare e la fantasia di un racconto. Oggi però i minni ri Sant’Agata,  ce li ammuccamu con tutta la delicatezza che nascondono, ni manciamu  cu l’occhi e  con la bocca in una sinestesia di odori e di piaceri, deliziando le  nostre voglie, solleticando i nostri sensi picchi sanno di cosi ruci ruci e non dimentichiamo che devono essere gustati  sempre in coppia e il perché, è facilmente deducibile.

Graziella Fortuna