UN RICORDO / IO, DINO CARTIA E QUELLI DELLA NOTTE
Eravamo in una trattoria di Trastevere a Roma e dopo aver cenato da Dio, tutti insieme chiedemmo a Rosa Balistreri di suonarci qualcosa. Per magia spuntò dal nulla una chitarra e Rosa intonò “ma comu fanu i babbaluci cu li conna a rumpire i ‘mbalate…” E’ stato quello un momento della mia vita in cui sono stato veramente felice, e Dino era con me, a babbiare, a spiegare la vera Roma a me che arrivavo da Siracusa e avevo conosciuto Roma sempre da turista. Avevo 31 anni, avevo vinto il Premio Capodieci per il giornalismo che mi era stato consegnato in Campidoglio, immeritatamente vicino a mostri sacri come Ruggero Orlando e Piero Angela e una quantità di artisti immensi, come appunto Rosa Balistreri. Dino, che insieme ad Armando Greco, era il cuore del Premio Capodieci, mi aveva preso sotto la sua disinteressata protezione. Mi aveva portato in giro per la capitale insieme a mia moglie, mi aveva fatto conoscere personaggi illustri, il noto editore, il noto libraio eccetera. Mi aveva riscaldato il cuore con il suo affetto. Nel mentre pensava all’organizzazione, a sanare contrasti e vanità artistiche di soggetti vari, ed era nonostante questo “manicomio” sempre presente con me, sempre attento e affettuoso, come anche Armando. Eravamo siracusani fuori le mura.
Da allora e per quasi 40 anni con Dino Cartia siamo stati amici veri, di quelli che quando trovavamo il tempo (che non avevamo quasi mai) si raccontavano tutto, gioie e dolori. Con cruda sincerità. Io sapevo le sue debolezze e lui sapeva le mie, era un conforto poter parlare liberamente con qualcuno. E’ una cosa che succede di rado nella vita visto che in quasi tutti prevale la voglia di recitare la parte che gli altri ci hanno assegnato. Io ero il giornalista aggressivo e rampante? Bene, quando parlavo facevo il giornalista aggressivo e rampante. Dino era accreditato di un pizzico cinismo e anche lui osservava questo copione. Qual era la realtà? Beh, non lo dico, non tradisco un amico a cui ho voluto, voglio e vorrò bene.
Dico invece chi era Dino per me. Intanto un amante, che dico un amante, un cultore del supercazzeggio. Dino aveva amato come un pazzo Efisio Picone (insieme nella foto a destra), figura assai nota ai siracusani con qualche anno sulle spalle. Efisio era estro e genialità, voglia di vivere e voglia di farsi male in lui erano un tutt’uno. Aveva amato Armando Greco che in quanto a pazzie non era secondo a nessuno. Aveva amato il giornalista Mazzone e l’imprenditore Baglieri e tanti, tanti altri. Tutti brillanti per diversità ma con il denominatore comune dell’amore immenso per Siracusa, per una città che strega i suoi figli. “Quelli della notte” con Dino e molti di quelli che ho menzionato prima lo giravamo senza telecamere a Siracusa molto prima che, con tutto il rispetto, ci pensasse Renzo Arbore. E tanto più i personaggi erano singolari tanto più ce ne innamoravamo.
Altro carattere distintivo la cultura. Magari qualcuno ha sorriso per qualche imperfezione linguistica, ma Dino era uomo di cultura vero, ricercatore accanito, in grado di perdere settimane, mesi, anni per arrivare a dimostrare una sua intuizione. Il suo archivio è vastissimo e la municipalità siracusana dovrebbe pensare fin da subito ad acquisirlo dopo aver contattato i parenti. Lui amava stupirmi e quando ci vedevamo o ci sentivamo per telefono aveva sempre una chicca da raccontarmi, ..ho trovato uno scritto…lo sai che c’è una foto degli anni cinquanta…
Amava moltissimo la sua famiglia, a modo suo, con l’arma dell’ironia, con la battuta che solo apparentemente era pungente ma da cui si evinceva un affetto appassionante, travolgente.
Dino aveva apprezzato molto una pagina che avevo fatto sul mio giornale in occasione della scomparsa di Michele Messina, grande avvocato e grande amico. “Non succede” mi aveva detto “ma se succede, mi raccomando”. La battuta era detta in siciliano e tradotta perde molto, il tono comunque era quello ironico di sempre, della “burrula”. Avevo pensato di raccontare tutte le cose che abbiamo fatto insieme, conoscenze, zingarate, trasmissioni, giornali, articoli, viaggi. Quello che di solito si fa quando manca un personaggio come Dino. Ma non me la sento. In queste occasioni io e Dino invece amavamo raccontare la famosa battuta del barone al mezzadro. Quando il mezzadro gli comunicava che era morto qualcuno in paese, il barone era stentoreo: “O fan culu cu mori”. Come accade nella vita arrivò anche il giorno del barone, praticamente in fin di vita. E il mezzadro pungente: e ora che dice barone? E il nobile con un fil di voce “O fan culu cu resta”Sarà dissacrante ma io e Dino pensavamo che il barone non avesse poi tanto torto. E sono certo che lui lo pensa ancora.
Salvo Benanti