UN ALIENO ALLA BORGATA, RACCONTO DI FRANCESCO CANDELARI
–Che schifo di tempo!– sbottò Fabio Rotondo, Presidente del Consiglio di Quartiere Santa Lucia, mentre entrava fradicio di pioggia all’interno dell’aula consiliare. Incrociò gli occhi di Francesco Candelari, il vicepresidente, comodamente seduto nel suo solito posto, che lo accolse con un sorriso ironico mentre continuava a tamburellare distrattamente con la penna sul proprio cellulare. –Siamo a novembre, cosa ti aspettavi? E poi, per due gocce di pioggia!
–Due gocce? Sembra il diluvio universale! Comunque, buonasera a tutti– disse rivolgendosi ai nove consiglieri presenti su dieci.
–Ho già fatto l’appello– comunicò Candelari, facendolo accomodare nel posto che gli spettava di diritto, e cioè tra lui e il segretario Giuseppe Naccarato, un competente burocrate laureato in giurisprudenza che curava la stesura dei verbali d’assemblea e delle delibere.
Quei giovani, che si riunivano due volte alla settimana nella piccola ma accogliente aula consiliare, erano gli amministratori eletti del quartiere Santa Lucia, meglio conosciuto con il nome di Borgata; un quartiere storico di Siracusa, nato nella seconda metà dell’Ottocento e famoso per la sua chiesa di Santa Lucia al Sepolcro fuori le mura, luogo in cui la leggenda narra che avvenne il martirio di Lucia, vergine e martire, patrona di tutti i siracusani.
Rotondo si guardò in giro: –Chi manca?
–Christian Garofalo– rispose con prontezza Naccarato. –Ha appena telefonato: dice che ritarderà qualche minuto. Con questa pioggia viale Scala Greca è diventato un fiume in piena.
–Per fortuna quella zona non appartiene alla Borgata– osservò Simona Schiavone, la sola e bellissima ragazza del Consiglio, quando, all’improvviso, un fulmine illuminò la sala, seguito da un tuono il cui boato fece tremare i vetri delle finestre per alcuni secondi. Rotondo imprecò sottovoce, poi passò subito all’ordine del giorno. –Il primo punto di oggi riguarda il manto stradale della via Agrigento, ormai da rifare ex-novo. Se non erro, questa problematica è stata sollevata dal consigliere Calcinella.
–Non erra affatto, Presidente– rispose questi con voce pacata e roca. Luigi Calcinella era soprannominato da tutto il gruppo “il Senatore”, per l’età anagrafica alquanto avanzata, ma anche perché poteva vantare un numero di legislature superiore a quello di tutti gli altri consiglieri. –Infatti è da mesi che sto cercando di convincerne il Vice Sindaco Italia sulla necessità…
Un fulmine più brillante e intenso illuminò l’aula e i volti dei presenti di una luce bianco-azzurrina così splendente da mostrare tutti in una trasparenza innaturale. Seguì un boato tanto assordante da trafiggere i timpani e togliere il respiro; l’intera stanza vibrò parecchi secondi, come scossa da un terremoto. Gli sguardi dei consiglieri s’incrociarono accompagnati da eloquenti espressioni di silenzioso e interrogativo terrore.
Poi il buio più pesto e profondo li fagocitò nel suo impenetrabile grembo tenebroso. Candelari si alzò per dirigersi a tentoni verso l’uscita: come all’interno dell’aula, anche fuori regnava l’oscurità più totale. –Non si vede assolutamente nulla– riferì. –Il temporale deve aver interrotto l’erogazione elettrica in tutta la Borgata.
–Andiamo bene!– commentò Rotondo con voce rassegnata. –Vedrete domani i giornali: “due gocce d’acqua e il Quartiere Santa Lucia resta al buio per ore”. Non mi resta che tenere spento il cellulare tutto il giorno.
–A proposito di cellulari– s’intromise Luigi Iacono, –il mio non funziona più.
A turno i consiglieri Gambuzza, Midolo, Navanteri, Fiducia e Ardita, accertatisi che i propri telefoni non davano più segni di vita, confermarono lo strano fenomeno.
–Qualcuno mi dà un accendino?– La richiesta di Rotondo rimase senza risposta, poiché al centro dell’aula si era improvvisamente acceso un fioco grumo di luce ambrata, sospeso a un metro da terra, che si ingigantì centuplicando la propria massa iniziale e accompagnando quella crescita vertiginosa con migliaia di scintille dorate in vorticoso movimento.
Gli esterrefatti consiglieri sgranarono ancor di più gli occhi, quando al centro di quell’ipnotico mulinellare di particelle luminose si materializzò d’un tratto un essere umanoide, spaventosamente ricoperto da una pesante e finemente decorata corazza metallica dai luminosi riflessi violacei. –Sono Harak-tà, Ambasciatore dell’Impero Vorgon– esordì con voce metallica e autoritaria. Sollevò di poco il capo, mettendo più in evidenza lo splendido elmo crestato, percorso in tutta la circonferenza da oscuri arabeschi. –Sono stato inviato su questo pianeta per prendere contatto con il rappresentante dell’istituzione chiamata Nazioni Unite. Chi di voi due è il presidente?– domandò indicando Rotondo e Candelari, gli unici seduti dietro una scrivania, quindi, secondo le fredde logiche deduzioni dell’alieno, quelli con il più alto grado di comando, visto che il segretario Naccarato aveva raccolto le sue carte e si era già defilato alla chetichella di un paio di metri dai due politici.
–Presidente dell’ONU?– rispose sconvolto Rotondo. –Guardi, non ho la più pallida idea né di chi sia lei, né tantomeno di chi l’abbia mandata fin qui, ma sappia che è finito proprio nel bel mezzo dell’aula consiliare del Quartiere Santa Lucia di Siracusa. Altro che ONU!
Candelari si sporse e, osservando con fare curioso il cinturone dell’alieno, pieno di strumenti ipertecnologici, non poté trattenersi: –Complimenti per il gioco di luci, ma il vostro teletrasporto è una vera schifezza: l’ONU ha sede a New York, dall’altra parte del pianeta. Non avete un navigatore satellitare?– sghignazzò.
–Basta!– L’alieno sbatté con violenza il pugno sulla scrivania e all’istante la corazza aumentò l’emanazione violacea, quasi a voler indicare l’ira e il disappunto del proprietario.
–Smettetela, noi Vorgon non sbagliamo mai! È ovvio che sono giunto nel posto giusto.
–Boh!– esclamò Rotondo rassegnato. –Se le fa piacere crederlo, faccia pure. Comunque io sono il presidente di questa assemblea, e lui è il mio vice– aggiunse indicando Candelari.
–Molto bene– sorrise mettendo in evidenza due sinistre file di denti aguzzi. –Ora che abbiamo chiarito i ruoli, posso procedere con il compito che mi è stato assegnato dal Sacro Imperatore: non sono qui per negoziare la vostra resa, che avverrà senza condizioni.
–Di quale resa stiamo parlando?– domandò Federico Di Franco Gambuzza, il diplomatico del gruppo. –E che vorrebbe dire “senza condizioni”? Si discutono sempre i termini di una resa!
L’alieno si voltò nella sua direzione, propinandogli un’occhiata al vetriolo. –Per tutti i vulcani del Sacro Crestor! Non ti permettere più d’interrompere l’ambasciatore Vorgon, razza d’imbelle primitivo! O scoprirai per la prima volta sulla tua fragile pelle il significato del dolore allo stato puro.– Tornò a parlare ai due politici, che, nonostante tutto, continuavano a guardarlo con l’espressione di chi si trova davanti un malato di mente in pieno delirio. –Tra poche decine d’anni il nostro Impero s’interesserà a questo settore galattico e quindi anche al vostro miserabile pianeta. Per quel tempo dovrete farvi trovare docili e sottomessi. Ogni minima forma di resistenza sarà punita con l’annientamento di interi gruppi sociali. A occupazione avvenuta, gli uomini abili verranno resi schiavi e deportati nelle miniere sparse per la galassia e nelle nostre industrie belliche a lavorare fino alla morte, per la gloria di Vorgon! Le donne in età riproduttiva saranno sottoposte a fecondazione forzata per dare all’Impero Vorgon braccia lavoro sempre fresche e disponibili.
Nel frattempo Garofalo, il consigliere in ritardo, fece il suo ingresso bagnato come un pulcino, ma con gli occhi fissi sull’alieno e il suo classico sorriso sardonico dipinto sul viso.
–Ciao ragazzi– esordì allegro. –Cos’è tutta ‘sta luce viola? Si vede addirittura dalla strada. E questo chi è?– domandò indicando il Vorgon. –Avete invitato i Cavalieri dello Zodiaco?
–Christian, per l’amor del cielo stai zitto!
L’ammonimento di Giuseppe Fiducia, il consigliere a lui più vicino, non servì a nulla: un violento manrovescio dell’ambasciatore colpì il nuovo arrivato in pieno volto, facendolo rovinare oltre la scrivania. –Avete preso il numero di targa?– furono le sue ultime parole, prima di perdere i sensi.
L’alieno tornò a parlare come se nulla fosse successo. –Ora, per esser certo che abbiate recepito le volontà del Sacro Imperatore, vi farò conoscere il destino cui sono andati incontro i popoli ribellatisi ai Vorgon.
Una bolla olografica fece improvvisa comparsa al centro dell’aula: all’interno era visibile un pianeta molto simile alla Terra, circondato da decine di astronavi. Mentre l’ultimo degli incrociatori ribelli precipitava in fiamme all’interno dell’atmosfera, sotto i colpi delle invincibili corazzate imperiali Vorgon, l’intera superficie del pianeta veniva illuminata da migliaia di esplosioni più accecanti del Sole. I consiglieri dovettero distogliere lo sguardo, poiché tale luminosità non era più sopportabile.
Quando fu loro possibile tornare a guardare, il pianeta azzurro aveva lasciato il posto a una visione da incubo: gli oceani erano evaporati, le nuvole scomparse, l’intera crosta terrestre era completamente nera e calcinata, tranne nelle zone d’impatto delle bombe, dove a causa delle altissime temperature il terreno, ancora liquefatto, era colorato di un sinistro rosso rubino, dai cui crateri andavano diramandosi cremisi venature ricolme d’incandescenti e mortali sostanze radioattive che avrebbero reso il pianeta inospitale alla vita per l’eternità.
La bolla scomparve e nell’aula cadde un tale silenzio da poter persino percepire il respiro affannato di qualcuno. La pausa venne presto interrotta dalla voce carica d’autorità del Vorgon: –Credo che queste immagini valgano più di mille discorsi. Non è d’accordo con me, Presidente?
Rotondo non rispose, troppo impegnato ad ascoltare ciò che il suo vice Candelari gli stava freneticamente comunicando sottovoce all’orecchio. –Sì, Francesco– rispose con tono complice –forse questa è l’unica cosa giusta da fare.
–Cosa vi siete detti?– domandò furioso l’alieno. –Niente colloqui privati in mia presenza.
–Stia sereno, Ambasciatore– disse Candelari con un ambiguo sorriso che non lasciava presagire nulla di buono. –Noi umani avremo un gran rispetto per la sua razza, quando arriverà. Sa qui sulla Terra come vi potremmo chiamare? Nazisti!
–Nazisti? Chi sarebbero costoro?
–Degli uomini che a loro modo hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell’umanità.
Rotondo interruppe il suo vice e si rivolse al segretario: –Dottor Naccarato, mi vorrebbe gentilmente passare il cacciavite dentro quel cassetto?
–Subito Presidente– rispose senza indugio.
–Cosa avete intenzione di fare con quell’arnese?– chiese l’alieno con tono circospetto.
Ma alla domanda non seguì risposta; a un cenno di Rotondo tutti i consiglieri gli saltarono addosso schienandolo sulla scrivania. La Schiavone gli sfilò l’elmo crestato; Iacono e Midolo lo tennero stretto per i polsi; Navanteri, il più forzuto del gruppo, gli staccò da dosso pezzo dopo pezzo l’intera armatura con il solo ausilio delle mani. –Cosa volete farmi? Ho l’immunità diplomatica: non mi potete nemmeno sfiorare!
–Mi dispiace, signor Ambasciatore– rispose Rotondo. –Lei non può venire a casa nostra, mostrarci filmati di mondi in fiamme, minacciarci, deriderci e sperare di farla franca. Non qui alla Borgata!– concluse passando il cacciavite a Candelari –A te l’onore.
Il vice afferrò l’attrezzo e senza pensarci su due volte lo affondò con fredda precisione chirurgica nella cavità oculare destra dell’alieno, per poi estrarne il suo occhio sanguinante.
–Maledetti! Maledetti selvaggi! L’ira Vorgon sarà tremenda. Vi pentirete per ciò che mi avete appena fatto.
Lo scintillante vortice che lo aveva teletrasportato fece la propria ricomparsa al centro della sala.
–Lasciatelo andare– ordinò Rotondo. L’alieno, privo dell’armatura e con il volto ricoperto di sangue, si tuffò dentro il tunnel di luce ambrata senza più osare voltarsi.
Candelari sfilò l’occhio dal cacciavite e con un lancio da manuale lo passò al giovane consigliere Ardita, che stazionava vicino al vortice. –Buttaglielo dentro!– gli urlò.
Questi, lungi dall’afferrare il viscido bulbo con le mani, lo intercettò stoppandolo con un piede e dopo un paio di lesti palleggi glielo calciò dentro con una rovesciata degna del Pelé dei tempi migliori, subito accompagnata dagli applausi di tutti i consiglieri.
Il tunnel sparì implodendo su se stesso e pochi istanti dopo tornò la luce.
–Cosa abbiamo fatto?– si domandò Rotondo, facendosi d’un tratto serio.
Candelari l’osservò per un instante, poi gli pose una mano sulla spalla e replicò: –Abbiamo salvato l’umanità. Anzi no, forse le abbiamo concesso qualche anno in più per prepararsi: adesso, grazie a noi, i Vorgon ci temono. Pensa cosa sarebbe successo se quell’essere si fosse veramente materializzato alle Nazioni Unite.
–Si sarebbero immediatamente calati le braghe e gli avrebbero consegnato le chiavi del pianeta.
–Infatti.
–Dov’eravamo rimasti?
–La via Agrigento: dev’essere riasfaltata.
–Già!
Francesco Candelari