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EGIDIO ORTISI: AMICU TI SUGNU, MA CIURDIANU MI CHIAMU

Chissà quante persone, durante i miei anni di esuberanza, sopportando la mia logorrea, avranno pensato fra sé e sé: “ma chistu s’appriccantou ccà e nun si ni íu acchiúi” (ma costui ci si è appiccicato addosso e non se ne vuole andare!). Ecco, a parte le mie scuse alle innumerevoli persone che sono incappate nella mia presenza ingombrante, l’osservazione mi permette di recuperare un’espressione del nostro dialetto, quasi scomparsa nella comunicazione quotidiana: appriccantarisi.

Tale verbo, poco usato nel circondario, tranne a Floridia, deriva da un sostantivo “’u ppriccantu”, che, per primo, mi descrisse Nunzio Bruno e che, per ultimo, in ordine di tempo, ha illustrato Corrado Di Pietro.

Così Corrado descrive ‘u pircantu: “Val la pena di ricordare qui un’antica usanza di molti paesi della Sicilia. Il creditore che “avanzava” dei soldi da un cattivo pagatore assoldava un uomo vestito in modo riconoscibile, il quale si piazzava muto e solenne davanti la porta del debitore e da lì non si spostava se non dopo che il debitore avesse pagato il suo debito. Questa figura singolare e grottesca si chiamava u pircantaturi, lett. “affascinatore”, e deriva dal sostantivo pircantu da cui il verbo pircantari, incantare, meravigliare. L’allusione in questo caso è all’immobilità del personaggio che sta come un fantasma davanti la porta del debitore o sul marciapiede di fronte, per segnalare quella spiacevole mancanza. U pircantaturi generalmente era uno di fuori paese e la sua presenza procurava non pochi fastidi a tutta la famiglia del debitore, il quale si faceva una cattiva fama in paese e, se aveva figlie femmine, stentava pure a maritarle”.  

‘U ppriccantu di pronunzia floridiana, nel raddoppio della labiale iniziale e nella metatesi che pospone la vocale dolce alla liquida, non è, secondo me, semplice variante fonica locale. Esso, onomatopeicamente, privilegia, rispetto alla dimensione incantatrice, la funzione minacciosa, di cui la Comunità locale lo ha rivestito. E questa intuizione, condivisa con il grande Nunzio della mia tarda adolescenza, è diventata progressivamente convinzione, affluendo in un ruscello più ampio man mano che, nel tempo, ha incontrato una lettura parlamentare e la riflessione su un antico detto delle nostre parti. Nel 1908 l’inchiesta Lorenzoni, promossa dalla Camera dei deputati, riguardo Floridia, notava che buona parte delle rimesse degli emigranti (in Sud America) veniva utilizzata dai parenti in attività di usura. Chiunque conosca un minimo di storia dei comportamenti del nostro circondario, ben sa che tale abitudine non è mai scomparsa, anzi, nel tempo, si è rafforzata, coinvolgendo, negli anni ’60 – ’80 del secolo scorso, ben più numerose persone e strati sociali rispetto alle famiglie degli emigranti, fino a diventare vera e propria forma di speculazione finanziaria pervasiva e organizzata. Per arrivare alla mia conclusione, devo aggiungere un altro elemento di riflessione, che, prima, sbanderà il paziente lettore ma che subito dopo, spero lo premi nella ricostruzione del puzzle conclusivo. Quando, alla fine del ’93, divenni, per la prima volta, Sindaco di Floridia, affidai, a spese mie, a un sociologo, che avevo conosciuto a Bruxelles, lo studio sulle prospettive della Comunità che avremmo dovuto guidare, perché gli atti amministrativi fossero consequenziali e coerenti e non  estemporanei e magari contradditori. Ne derivò il suggerimento a investire in vivibilità ambientale e, soprattutto, servizî, perché Floridia, priva di siti interessanti ma non povera di ciclici riti, poteva sfruttare la sua posizione di crocevia tra Noto, Pantalica e Siracusa.

E proprio da Siracusa e dai suoi abitanti, la nostra cittadina avrebbe potuto e dovuto trarre linfa vitale per le sue prospettive di miglioramento del prodotto interno lordo e della qualità della sua vita sociale. Cosa che poi è avvenuta, lungo gli anni ‘90. Ma questa è un’altra storia. A dire il vero, i rapporti tra i Floridiani e i Siracusani si sono sempre dipanati, nel corso dei secoli, in termini amichevoli, pur riconoscendo i primi ai secondi il loro status di cittadini e, contemporaneamente e con grande senso di realismo, cercando di trarne vantaggio economico. Chi non ricorda le innumerevoli famiglie delle due Comunità diventate amiche in occasione di calamità (l’ultima, i bombardamenti della 2ª guerra mondiale, quando migliaia di figli di Archimede “sfollati” si rifugiarono presso le campagne dei Floridiani).

E quale famiglia floridiana, in occasione di alcune nostre ricorrenze rituali (il palio dell’Ascensione e, negli anni ’90, il Carnevale) non ha ospitato amici di Siracusa, instaurando o rafforzando un rapporto amicale? Per completezza, su questo versante, bisogna aggiungere che la città è stata sempre servita dai prodotti della terra floridiana. Ricordo che ancora negli anni ’50, gerle di pane caldo “di casa” si rovesciavano sulle tavole imbandite del capoluogo, portate spesso a piedi e poi, pian piano, con le bici, i motorini …… E l’olio di oliva? E il vino? E le spezie? E il sapone? E ……Insomma, il legame affettivo e materiale fra le due Comunità, almeno prima dell’era indistinta della globalizzazione, è stato molto stretto e gradito da entrambe le parti.

Ultimo appunto preparatorio: i Floridiani, spesso con mal celato disappunto, di sé stessi amano dire: “’u ciurdiano è amanti do forestieru” a indicare l’estrema disponibilità dei locali nei confronti di persone e, a volte, mercanzie, non indigene.

Dunque:

I Floridiani sono persone disponibili e accoglienti.

I Floridiani vantano (?) una tradizione di pratica dell’usura antica e pervasiva.

Esiste nel nostro circondario un verbo, “appriccantarisi”, che deriva da un sostantivo, “’u ppriccantu” che non è usato correntemente altrove.

Adesso, proviamo a comporre il puzzle.

L’espressione “Amicu ti sugnu ma ciurdianu mi chiamu”, probabilmente, sarà nata e si sarà diffusa nel groviglio dei rapporti inter e intra urbani, ad indicare il senso di ospitalità e di fiducia (e poi, nel tempo a noi più vicino, di calcolo) dei paesani nei confronti di chiunque avesse bisogno. Di dilazionare o di rinviare il pagamento delle forniture di vettovaglie, fino alla somministrazione di vere e proprie somme di denaro: questo per “Amicu ti sugnu”.

Ma quando il debitore tradiva la fiducia del creditore, rinviava troppo a lungo l’impegno ad onorare il proprio debito oppure pensava di farla franca, affidandosi a furberie e ad escamotage, ecco che veniva fuori l’altro aspetto della personalità del paesano, introdotto dalla congiunzione avversativa: “ma ciurdianu mi chiamu”, ovvero “cca nisciunu è fesso”. Il creditore pretendeva, e giustamente, che il debitore onorasse l’impegno. E, a indicare la dimora del fedifrago, gli piazzava di fronte un personaggio, in genere un diseredato, che non ne sentiva di allontanarsi, fino a quando il debito non fosse stato saldato. Tale personaggio si chiamava “pircantu” o “ppriccantu”, nella versione che a me è stata tramandata e che preferisco. Il suo comportamento veniva definito dal verbo “appriccantarisi”, derivato dal sostantivo e, poi, destinato nel tempo a metaforizzarsi e a sviluppare il significato secondario di attaccare discorso, a prescindere dalla motivazione originaria che ne aveva determinato la valenza semantica primaria.

Conclusione

“Amicu ti sugnu, ma ciurdianu mi chiamu” non è legato alla bontà insidiosa del vino della cittadella iblea, né, tanto meno, ad una furbata di un personaggio locale, che fece coniare al famoso Angelo Musco il detto, né, tanto meno, ad amenità similari. Se l’interpretazione che abbiamo proposto non si è diffusa nel tempo è dovuto all’insofferenza dei nostri concittadini di fronte alla seconda parte di esso, che, certo, evidenziava, non solo la precisione comportamentale ma anche una pratica, che, ancorchè diffusa e riconosciuta, certo onore alla Comunità non fa. Ma chi studia ha sempre il dovere di scrivere la verità. Almeno, così è. Se vi pare.

                                                                 Egidio Ortisi