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QUELLE CHE LA PRIMA VOLTA (ALLA RADIO PHONOLA) NON SI SCORDA MAI MAI MAI

Era lì, l’avevo dimenticato. Ero convinto che chissà che fine avesse fatto dopo più di quaranta anni. Invece l’altro giorno, tornato nella vecchia casa di via Filisto, l’ho vista nello studiolo che usava mio padre. Era lì, l’avrò guardata migliaia di volte, ma quando nelle scorse settimane avevo pensato alla radio che ascoltavo da ragazzino, ricordavo solo il colore, una specie di giallo marroncino, e la manopola per la sintonizzazione. Non ricordavo nemmeno la marca: Phonola.
Le case abitate solo di ricordi portano malinconia. A me quella radio ha portato anche tenerezza.

Perché è da quella radio, che voi vedete adesso a corredo di questo post, che io ho ascoltato la colonna sonora della mia adolescenza che un buona parte mi ha accompagnato per tutta la vita . Perché da quella radio io avventurosamente registravo con un “Geloso” a nastro prima e con un registratore a cassette poi (di quelli che bisognava premere contemporaneamente REC e PLAY) le musiche di programmi come “Supersonic”, “Per voi giovani” e “Bandiera Gialla” che quando non c’erano le radio private erano le uniche trasmissioni che passavano la musica pop e rock. Da quella Phonola sono uscite le note di alcune canzoni che ho amato sin dal primo ascolto e non ho mai smesso d’amare.

 

Perché ci sono canzoni epiche che ho scoperto poi che erano tali, come mi accadde anni dopo con “The Passenger”. Ma in principio fu “Where did our love go”. Gracchiava la Phonola. All’inizio degli anni ’70 la modulazione di frequenza era come la rucola: non esisteva o io ne ignoravo l’esistenza. Si ascoltavano le onde medie che a Siracusa significava fare uno slalom fra nenie arabe e qualche rara voce slava (e poi uno si chiede il perché di certe sonorità di Battiato…) cercando voci e musiche intellegibili. E così una sera dalla radio venne fuori una canzone che mi colpì, m’appassionò, m’indusse a premere rec e play, e a registrarla. O meglio registrarne la parte che restava. Che allora le mie canzoni registrate erano spesso a metà: il tempo di sentirla, capire che mi piaceva, attivare il registratore e, nella migliore delle ipotesi un buon minuto era andato via.

Ancora oggi non so esattamente chi la cantava. Non mi pare fosse l’originale, che poi adorai, delle Supremes. Ho cercato fra tutte le cover del pezzo, decine, di riconoscere quale fosse quella che ascoltai e che mi colpì tanto a 13 o 14 anni. Alla fine sono incerto fra due versioni, quella di “Peter Jay & the Jaywalkers” e quella di “Donnie Elbert”. La prima è del 64, cioè dello stesso anno dell’originale di Diana Ross e delle sue supreme, la seconda del ’72, che poteva essere passata per radio più plausibilmente quando io avevo 15 anni.

E, insomma, quella canzone mi restò impressa, e quando anni dopo causalmente ascoltati la vera “Where did our love go” (https://youtu.be/qTBmgAOO0Nw) quasi mi commossi nel capire come, quella musica interrotta da scariche e fruscii era in realtà una leggenda e che io l’avevo riconosciuta e amata. E adorai quella strana base ritmica che poi scoprì essere realizzata calpestando a tempo due travi di un cantiere da parte di un ballerino che bazzicava alla Motown.

 

Un’altra sera stavo seduto nella mia stanza; doveva essere la fine del ’72 o poco dopo, inverno comunque. Accucciata sotto il tavolo doveva esserci Windy, la collie meravigliosa che adoravo, il cane che ho più amato e che morì poco dopo per un osso di pollo andato di traverso. Su “Supersonic” entrò, con i soliti fruscii di sottofondo, un giro di basso sensazionale e una voce disincantata. Non capivo le parole ma intuivo che non fossero novene sulla vita dei santi. Cioè in realtà poi compresi che erano moderne novene degli esseri scabrosi che in quegli anni pascolavano nella Factory di Wharol. Al termine di ogni strofa un refrain entrato nella storia del rock faceva du dudu dudu du du du du dudu dudu. Ero stato folgorato da “Walk on the wild side” di Lou Reed ( https://youtu.be/RsVLIiI8Vfo )

 

Ma non solo canzoni straniere ovviamente entusiasmavano i miei ormoni in subbuglio di liceale.

Era il giorno di Natale del 1971. Eravamo a pranzo a casa di zia Marisa e zio Masino Giallongo in via Brenta. La “Hit parade” condotta da  Luttazzi andava in onda alle 13. Ho questa immagine davanti agli occhi. Stavo guardando fuori dal balcone, da lato del palazzo che dava sulla stazione e nella mia vita irruppero “le bionde trecce gli occhi azzurri e poi…” Ebbi in quel momento la sensazione netta che stavo ascoltando una cosa speciale, una cosa storica per la musica italiana quale appunto è stata ed è “La canzone del sole” di Lucio Battisti (https://youtu.be/RD42gaumE3M ).

 

Un anno dopo ero ingessato. Cadevo spesso con la mia vespa rossa in quel periodo. Mi ero rotto il polso rovinando dentro una buca di viale Acradina o della “salita del Brefotrofio” come tutti chiamavamo la strada che da piazza Matila andava verso la “Sibbia”. Su “Per voi giovani”, all’epoca condotta da Paolo Giaccio, Mario Luzzatto Fegiz e un giovanissimo Carlo Massarini, presentarono il “33 giri” di un giovane cantautore romano. Era quello che oggi si chiamerebbe un “concept album”, cioè un disco che racconta una storia che si dipana dalla prima all’ultima canzone. Mi piacque assai. Era leggero ma moderno, suonava diverso da Morandi o Ranieri, per non parlare di Mario Tessuto (Lisa dagli occhi blu) o Riccardo Del Turco (Luglio col bene ch e ti voglio) e allora il grande Faber non passava tanto in radio e men che meno in tv. Insomma quel giorno di inverno del 1972 dopo aver ascoltato il programma (andava in onda nel primo pomeriggio) seduto nel giardino della casa di via Filisto con la Phonola che andava anche a pile, decisi che dovevo averlo quel disco, che mi piaceva troppo. E così mi incamminai dalla Grottasanta verso corso Gelone e da “Moscuzza” comprai “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni. Con il mio disco sottobraccio tornai a piedi in via Filisto e nel giradischi di Selezione del Reader’s Digest comprato a rate che avevo in camera mia (uguale a quello di molti miei coetanei) ascoltai tante volte l’epopea della “maglietta fina”  (https://youtu.be/nKQ5QVdhWFw ) e del romanticissimo “Tevere che andava lento lento”. Non immaginavo allora che di Baglioni mi sarebbe piaciuto solo quell’album e, molti anni dopo, la canzone che si dice racconti la fine di quel piccolo grande amore e cioè “Mille giorni di me e di te”.

 

Parlo di primi ascolti memorabili e quindi non è questa l’occasione per raccontante le emozioni di quegli anni, quando la musica era rara e preziosa, e ascoltavamo rapiti per la prima volta Dark Side of The Moon del Pink Floyd, Selling England by the pound dei Genesis, Machine Head del Deep Purple, Led Zeppelin IV, o Aqualung dei Jethro Tull.

Come sarà per la prossima volta il capitolo dedicato alle cover che assai mi stanno a cuore.

 

Hasta el marenero marenero marene siempre

Joe Supremes Strummer

 

(2 – Continua. Nella prossima puntata Blue Monday, Personal Jesus, Redemption Song, She, Don’t leave me this way, Black Magic Woman…)