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COME LA TONNARA DI SANTA PANAGIA, INVASA DAI PECORAI, DIVENTO’ MANNIRA

Purtroppo il progresso, mentre apporta lo sviluppo positivo in tanti settori sta facendo scomparire, anche nel territorio siracusano, tanta parte della tradizione, delle nostre radici, soprattutto nel settore dei mestieri.

Così, vanno gradatamente ma inesorabilmente scomparendo le caratteristiche figure del canestraro, ’u vasciddaru, del saponaro (l’ultimo lo conobbi a Lentini, il signor Mazzone, che abitava di fronte alla mia casa negli anni Cinquanta, il ciabattino (’u scarparu), il sellaio, il maniscalco, lo stagnino (’u stagnataru) di colui che riparava i tetti di tegole e le volte di canne (’u levastizzanii), persino lo scalpellino o ’ntagghiaturi.

Il progresso apportato dalla scienza anche nel campo della pesca ha fatto sì che nelle città marinare, come Siracusa, sia scomparsa anche la figura del tonnaroto, di colui che veniva chiamato durante la mattanza per la sua particolare esperienza in quella delicata operazione, che oltretutto comprendeva diverse specializzazioni: ammazzaturi, ’ntrigghiaturi, curiaturi.

Una particolare esperienza bisognava avere, per esempio, nel preparare quella che possiamo definire la Trappola per i tonni, la camera della morte.

Un Rais, un capociurma, di tutto rispetto doveva dimostrare la sua bravura non solo nel guidare la mattanza, ma anche e soprattutto nello stendere le reti nel modo più… strategico e nel disporre la trappola: bravura che non poteva certo inventarsi dall’oggi al domani ma che si sviluppava si può dire fin dalla nascita, che si tramanda da padre in figlio, come gli acrobati del Circo Equestre:

“ Rais ci si nasce—afferma con orgoglio l’ultimo Rais della tonnara di Santa Panagia, Tatai Fontana, che ci ha guidato nei giorni della lunga visita effettuata alcuni anni addietro – e non ci si diventa!”

La descrizione non poteva farcela, nei minimi particolari, se non il tecnico per eccellenza, che proprio in quella tonnara nacque e dove operò lui e prima di lui il padre, il nonno, il padre del nonno. “ La tonnara partiva da lì – comincia lui a spiegarci indicando la direzione nord, verso l’attuale pontile; infatti il tonno prendeva una

direzione costante, per un istinto di natura ancestrale: veniva da Augusta, proveniente dallo stretto di Messina e scendeva a sud, verso Siracusa –

Ci sarà ancora, sicuramente, una specie di appoggio per poterci mettere un cavo, sull’ultima sporgenza della scogliera: una specie di vuccula, di anello, non di ferro ma fatto sulla roccia viva.

E di là si andava a finire all’altezza delle navi ancorate sulla punta dell’attuale pontile, al largo, a circa 700 metri dalla costa. La rete girava tutta sulla destra, sempre sulla destra, guardando il mare, a semicerchio.

Bisognava conoscere a menadito il fondale, metro per metro, perchè la rete bisognava stenderla secondo l’esatta profondità del mare, alzandola e abbassandola senza farla rompere o incagliare sugli scogli sott’acqua! Allora non era facile osservare il fondo marino come facciamo oggi che abbiamo pinne e maschera o addirittura il batiscopio, per cui controllare come e dove veniva sistemata la rete richiedeva una conoscenza ed un’esperienza assolutamente sicure! Il subacquismo stava per nascere a Siracusa proprio in quegli anni del dopoguerra, in occasione del recupero di un relitto, o meglio di tutto quello che le navi affondate contenevano, dalle coperte alle tanche di benzina.

Allora non era ancora venuta l’idea di usare come maschere e respiratore maschere antigas! Lo stesso Conte Pietro Gargallo, che aveva riacquistato la tonnara dai Cappuccio, doveva essere molto attratto dalle nuove possibilità che cominciava ad offrire l’archeologia sottomarina; ma lo fece dopo che finì la tradizione del

la mattanza.

Ma c’era chi già aveva fatto i primi esperimenti di scendere ad una certa profondità in apnea usando una molletta al naso, per avere le mani libere, anche se in questo

modo si poteva scendere a pochi metri perchè non c’era la possibilità di “compensare”.

Nè avevamo ancora alcuna esperienza di scendere per parecchi metri, come fanno i raccoglitori delle spugne e di coralli o i pescatori di perle, visto che da noi il pescatore poteva anche… non saper nuotare perchè non toccava acqua se non…per naufragio.

Noi, dunque, dovevamo regolarci facendo ricorso esclusivamente alla nostra memoria, al nostro intuito, al riferimento che personalmente potevamo farci con i punti

che ci offriva la costa: per questo l’esperienza e il senso d’orientamento del rais erano decisivi. Un eventuale errore di calcolo della lunghezza delle rete e della natura del fondale poteva compromettere sia l’esito della mattanza, sia l’attrezzatura stessa!….”

Come si disponevano le reti?

“ Prima c’era da sistemare la rete fina, per potere, non diciamo adescare, ma accompagnare il tonno nel tragitto, dentro la tonnara: era il cosiddetto pirale. Questo faceva il semicerchio di cui or ora abbiamo accennato, di modo che il pesce si avvicinava, si accostava a questa rete, che a mare era quasi invisibile, fatta di uno speciale materiale che

certamente non era ancora il nylon, che non si conosceva, ma la zammarra, ottenuta dall’agave. Quando il tonno arrivava qua, entrava sempre più addentro, finchè non arrivava nella cammira da riciviri: dietro non ci tornava più, chè se si fosse trattato d’un pesce che avesse avuto l’istinto di tornare indietro, pesce non ne avremmo preso nemmeno

uno! Il tonno, invece, va avanti per la sua strada, sempre più verso il sud: la trappola della tonnara è basata espressamente su questa sua ineluttabile abitudine. L’ultimo tratto lo conoscono tutti: era la camera della morte.

Questo tratto di rete era il più robusto e toccava perfettamente il fondo, di modo che il tonno che qui doveva essere matato non avesse nessuno scampo, come non ha nessuno scampo quando il topo, adescato dal formaggio, entra ’nt’’a lattera, nella trappola che tutti conoscono. Quando uno dei pescatori messi da guardia li avvistava, avvertiva subito il rais, che dava subito l’ordine di “chiudere la porta”. Chiusa la porta, se si faceva in tempo, il tonno rimaneva là e si poteva con una certa facilità poi mattare; altrimenti.

Domando: Quante imbarcazioni venivano impiegate nell’operazione della pesca del tonno, della mattanza?

“Come imbarcazioni grosse erano: due cchiatte e due sciare, quindi quattro. Poi c’erano le barche leggere, più piccole; in una saliva il Rais, in un’altra saliva il sottorais.

Un’altra serviva quando c’era la pesca minuta, e serviva per trasportare quel pesce.

Qual era il compito del Rais?

“Durante la mattanza, sulla sua chiatta, nella seconda barca ( dove non c’era la ciurma che doveva arpionare il tonno e issarlo a bordo) doveva dirigere l’operazione. Se qualcuno veniva meno, perchè la forza dell’uomo non è certo per tutti uguale, doveva avvertirlo affinché stesse più attento e provvedesse a non fare scappare il tonno. Il tonno, infatti, era così furbo che, appena vedeva un lembo di rete più molle, rilassata, ci andava a mettere il muso e riusciva a sfondare e svignarsela, lui e parecchi altri che lo seguivano per istinto, per quello spirito di conservazione che Dio ha posto in tutte le creature. Ora, per evitare questo, il Rais teneva gli occhi bene aperti. Teneva a

portata di mano dei pezzi di sughero che spezzettava e buttava addosso a quel marinaio che intendeva richiamare per impartirgli l’ordine di tenere sollevata e tesa la rete in quel punto. Ricorreva a questo lancio di “proiettili sugherati” perchè, con il vocio che la ciurma faceva, non sarebbe riuscito in nessun altro modo a farsi sentire e ad attirare l’attenzione ai suoi comandi.

A chi ordinava di tirare e a chi ordinava di diminuire, finchè non si arrivava a unire alla pari gli sforzi di tutti, a metterci tutti la stessa forza.

“ Fra qualche giorno – conclude Tatai Fontana con la voce velata di tristezza – qui giungeranno i pecorai con le loro pecore: la tonnara si è trasformata in mànnira!…

Arturo Messina